Racconti dal mondo precario

sabato 31 agosto 2013

Il Presidente Crocetta e la mitopoiesi del dopo-Fiat siciliano

Il primo dicembre 2011 le organizzazioni sociali, il gruppo Fiat e DR motor, alla presenza dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera e del ministro del Lavoro Elsa Fornero, hanno firmato un accordo in cui si prevedeva: la cassa integrazione ordinaria per i 1312 dipendenti dello stabilimento Fiat di Termini Imerese; la mobilità per 640 operai che avevano i requisiti necessari per essere “accompagnati” alla pensione e l’insediamento sul sito industriale siciliano dell’azienda Dr Motor rappresentata da Massimo Di Risio che, nel corso del 2012 avrebbe dovuto rilevare lo stabilimento termitano e far partire gli investimenti per il rilancio della fabbrica e per il reimpiego degli ex-operai Fiat. Tuttavia, nei primi mesi del 2012, a parte la cassa integrazione ordinaria, nulla era ancora stato messo in opera. Per quanto riguarda i 640 operai che sarebbero dovuti andare in pensione, questi con la nuova legge sulle pensioni vennero trasformati in esodati, un nuovo termine coniato dal ministro Fornero per indicare, in estrema sintesi, tutti coloro che hanno perso il lavoro e che non hanno i requisiti minimi per andare in pensione[1]. Inoltre, sin dai primi mesi dall’accordo è chiaro a tutti che Massimo Di Risio, in un primo momento individuato dall’agenzia governativa Invitalia come sostituto investitore affidabile, non ha la disponibilità economica per fare fronte al rilevamento del sito industriale.
È nell’aprile del 2012 che i sindacati locali cominciano a mobilitarsi per fare in modo che l’accordo firmato sia rispettato. Il 30 aprile, in particolare, le associazioni sindacali organizzano uno sciopero generale che diventa la prima occasione pubblica per spiegare ai lavoratori e ai cittadini qual è la situazione reale della vertenza Fiat. Il primo maggio si dà vita a una manifestazione in cui viene rinominato il viale antistante allo stabilimento automobilistico locale[2]. Infine, per tutto il mese di maggio si susseguono manifestazioni volte a sensibilizzare l’opinione pubblica, la classe politica e tutti gli organi ed enti competenti.
Tuttavia, il momento politico non è dei migliori. Al governo nazionale, infatti, è insediato il governo dei tecnici, impegnati principalmente a tagliare la spesa pubblica e ad aumentare la pressione fiscale; al governo nazionale Raffaele Lombardo è costretto ad affrontare una situazione economica regionale disastrosa, le indagini da parte dei magistrati e, come se non bastasse, un mandato in scadenza e difficilmente rinnovabile da parte dell’elettorato. In altre parole, si verifica una vacanza d’interlocutori politici che fa perdere rilevanza nazionale e, cosa più importante, tempo a tutti coloro che si occupano della vertenza Fiat.
Finalmente, però, a ottobre vi sono le elezioni regionali e in scena fa la sua comparsa Rosario Crocetta e il suo modello Sicilia, la sua rivoluzione. Il neo-Presidente siciliano, già negli ultimi mesi del 2012, convoca dei tavoli tecnici per illustrare le sue intenzioni nei confronti dello stabilimento Fiat in dismissione e dei lavoratori che vedono sempre più vicino il pericolo del licenziamento.
Vi è un’imprecisione, a questo punto, da chiarire: è vero che Crocetta convoca i tavoli, tuttavia quasi mai è presente alle riunioni per “improrogabili impegni istituzionali”. Ad ogni modo sembra che il Governo regionale, nei primi mesi del 2013, abbia preso in seria considerazione la vertenza Fiat di Termini Imerese. Si pensa, infatti, a bandi pubblici per sondare il modo imprenditoriale al livello internazionale, si pensa a un possibile investitore cinese e, a questo punto, si fa un passo falso che indica la difficoltà del governo regionale a dare una svolta decisiva alla questione: si comincia a parlare nuovamente di affidare il rilancio industriale della fabbrica automobilistica a Di Risio e alla sua DR motor, che, lo ripeto, era stata dichiarata economicamente inaffidabile anche dalle banche che avrebbero dovuto prestare il denaro necessario agli investimenti in Sicilia.
A questo punto i sindacati e i lavoratori, esasperati e sempre più ansiosi di vedere una certezza nel loro prossimo futuro, scendono nuovamente in piazza. È il 5 aprile quando è organizzato un corteo improvvisato che attraversa il centro di Palermo e termina in Piazza Indipendenza, dove ha sede il palazzo della Presidenza della Regione. L’obiettivo è incontrare il Presidente Crocetta. La mattina trascorre a urlare slogan contro il governo regionale e la Fiat, e un lanciare uova contro il palazzo della Presidenza, ma si conclude con un momentaneo nulla di fatto. Momentaneo perché quello stesso pomeriggio i delegati dei principali sindacati locali ricevono una comunicazione da parte dell’ufficio di Presidenza con cui si fissa una riunione per le 15,00 di lunedì 8 aprile.
Dopo una lunga attesa, arriva il giorno della riunione, i rappresentati sindacali entrano nel palazzo della Presidenza e iniziano l’incontro con Rosario Crocetta. È in quest’occasione che il Presidente siciliano annuncia che la Regione è in contatto con tre grosse aziende che hanno l’intenzione di investire a Termini Imerese. È con le seguenti parole che il Presidente annuncia la notizia e tenta di delucidare la situazione:

Però in atto, noi qualcosa l’abbiamo fatta. Non all’interno, preciso subito, non all’interno dello stabilimento Fiat, ma all’interno dell’area di Termini Imerese che, in termini di occupazione, equivarrebbe ai due terzi dei lavoratori attualmente occupati nell’area di Termini Imerese. Si tratterebbe di un impianto di biocarburanti, che verrebbe prodotto non con prodotti alimentari, quindi non… non renderebbe, diciamo… non depaupererebbe la natura, ma i materiali di scarso rilievo dal punto di vista agricolo, come potrebbero essere le canne, le cose, fra l’altro noi lì… che occuperebbe circa 300 persone, più un indotto, che è di tipo agricolo che ovviamente non interesserebbe i lavoratori Fiat e che io avrei… I lavoratori di tipo industriale, perché non voglio usare, come dire… Che potrebbe interessare anche molto il settore della forestazione. Noi abbiamo pensato di agevolare l’insediamento dell’impresa: abbiamo assicurato una rapida, diciamo, approvazione della pratica una… e anche il fatto che noi avremmo identificato, come Regione, una serie di arie nostre, non coltivate, che potrebbero essere destinate a questo attraverso l’impiego dei lavoratori forestali, per cui l’impatto che noi potremmo avere potrebbe essere più comprensivo, in termini occupazionali regionali. Da un lato avremmo la prospettiva dei lavoratori dell’industria, dall’altro l’amu a finiri cu sta storia che i forestali un travagghianu, che non sono produttivi etc. etc. Un altro impianto, nel campo della produzione energetica, sempre con base biologica, quindi a inquinamento zero, cioè interverremmo in questa area con impianti di totale rispetto ambientale e, quindi in qualche modo, che non farebbero a pugni con la vocazione turistica che ha quel territorio, di rispetto anche della natura e che utilizzerebbe sostanze, biomasse di tipo non alimentare, che potremmo applicare con la stessa formula. E quindi mi sembra una sessione di lavoro veramente notevole e intelligente, che metterebbe in campo due cose: non ci sarebbe l’indotto casuale, ma un indotto programmato in cui finalmente optiamo e troviamo anche i soldi per pagare questi lavoratori che vengono dalla de-forestazione probabilmente daremmo un lavoro stabile anche a loro. L’altra impresa era un’impresa nell’ambito dei motori a gas. In pratica loro vorrebbero dei ticket pre-elaborati, pronti per essere istallati soprattutto per grandi motori, motori ... camion, trattori, ma anche automobili etc. etc. che verrebbero prodotti come ticket che, volendo, si possono anche istallare nel territorio, ma capite bene, siccome uno degli obiettivi sarà quello della esportazione, alcuni di questi ticket verrebbero ovviamente esportati e poi installati in officine collegate in altre regioni. Loro si propongono, con questa cosa, il mercato del Sud Italia. Queste, per il momento, sarebbero le tre proposte produttive che ci arrivano e che occuperebbero circa 750 persone. Quindi noi ci troveremmo già attualmente a una occupazione stimata fra le 650 e 700 persone che potrebbero, alcuni progetti, potrebbero partire entro la fine di maggio. E che, in ogni caso, anche se non risolvessero… sono tutti fuori dallo stabilimento Fiat e che non abbiamo accettato, fino ad oggi, in altre aree.

      Il governo regionale, quindi, nella persona del suo Presidente, annuncia che per Termini Imerese avrebbe prospettato l’ingresso di tre diverse aziende: due dovrebbero produrre biocarburanti ecologici e una terza un non meglio specificato ticket per motori a gas. Nel passo appena citato, Crocetta utilizza un linguaggio etereo, indefinito, sfuggente ma, allo stesso tempo, avveniristico, immaginifico. L’estrema indeterminatezza di espressioni come: materiali di scarso rilievo dal punto di vista agricolo, come potrebbero essere le canne, le cose; oppure utilizzerebbe sostanze, biomasse di tipo non alimentare; o, infine, In pratica loro vorrebbero dei ticket pre-elaborati, pronti per essere istallati soprattutto per grandi motori, motori ... camion, trattori, ma anche automobili etc. etc. è bilanciata da termini avveniristici, dal sapore deduttivamente ipertecnologici, ma contemporaneamente legati al passato agricolo quali biomasse, biocarburanti, energia pulita. È un progetto, in altre parole, che richiama, al livello simbolico, quelli che, per usare le parole di Roland Bathes, sono i nuovi miti d’oggi (l’energia pulita, le tecnologie avanzante, il recupero e lo sfruttamento sostenibile dell’ambiente).
La vertenza Fiat e dei suoi lavoratori, però, nell’annuncio del Presidente è trattata solo di sfuggita. L’azienda del gruppo torinese, nel programma delle possibili soluzioni trovate dalla Regione Siciliana, non viene nemmeno menzionata; i lavoratori che dovrebbero, in un futuro tutt’altro che certo e definito, trovare impiego si aggirerebbero intorno a 650-700 (la metà circa degli operai, che alla data attuale ammontano a 1312) e, in ogni caso, le soluzioni prospettate non riguardato i dipendenti Fiat in cassa integrazione.
      L’annuncio che, nell’intento del Presidente e del governo regionale, doveva presumibilmente tranquillizzare i lavoratori e le organizzazioni sindacali, ha l’esatto effetto contrario perché troppo indeterminato e incerto: chi sono queste aziende? Da dove vengono? Che tipo di biocarburanti vogliono produrre e con quali risorse ambientali? Cosa c’entrano i lavoratori forestali? E i lavoratori della Fiat e dell’indotto cosa faranno? Quali sono i tempi di attuazione di un simile progetto? Tutte domande queste che, è bene dirlo, sono rimbombate a forza, masticate sotto banco, sussurrate fra le persone sedute fianco a fianco e urlate contro il Presidente siciliano e il suo entourage durante i lunghi cento minuti in cui è durata la riunione. Domande, altresì, a cui non è stata trovata una risposta che delineasse una parvenza di certezza nel futuro.
Ma non è soltanto l’indeterminatezza del progetto presentato ad avere acceso gli animi. Certo, è possibile sostenere che quello presentato da Rosario Crocetta sembra uno dei tanti progetti politici “paracadutati dall’alto”, senza nessun tipo d’interlocuzione con chi dovrebbe abitare accanto a quelle fabbriche, seppure presumibilmente ecologiche. Ma non basta ancora. Il fatto è che il Presidente Crocetta ha commesso anche l’errore di sottovalutare il valore simbolico dello spazio occupato dallo stabilimento Fiat. Nel caso di Crocetta lo stabilimento, la zona industriale e i lavoratori di Fiat e dell’indotto vengono completamente cancellati negando a tutti la possibilità di rimodulare e rifunzionalizzare lo spazio che per quarantuno anni è stato il centro e la fonte di vita e benessere per migliaia di persone del luogo.





[1] Il decreto salva-esodati in cui ci si occupa anche dei lavoratori della fabbrica siciliana è stato approvato, da parte del governo Monti, soltanto nel dicembre 2012, quindi a distanza di un anno dalla firma dell’accordo menzionato precedentemente. È inutile aggiungere, credo, che in quei mesi molte sono state le preoccupazioni e le critiche da parte dei lavoratori “esodati”.

sabato 24 agosto 2013

Corpi in fabbrica. Cibo e micro-resistenza (III parte)

Nei post precedenti (La visita medica ovvero l'assoggettamento dei corpi, Corpi in fabbrica. Assoggettamento eresistenza e Corpi in fabbrica. La femminilizzazione del lavoro e lacancellazione dell'identità sessuale), seguendo la prospettiva biopolitica di Michel Foucault, ho tentato di mostrare le modalità in cui il corpo è preso all’interno di una serie di dinamiche socio-politiche che tendono ad assoggettarlo. Tuttavia, sarebbe riduttivo sostenere che il corpo sia solo un oggetto passivo che è assoggettato dal potere capitalista e neo-capitalista. Il corpo dell’uomo in società è anche un mezzo attraverso cui esprimere il proprio dissenso e la propria contestazione[1] nei confronti di un ordine costituito che si preferirebbe migliorato, accessibile e sopportabile.
In questo senso, nel contesto sociale della Fiat di Termini Imerese, mi sembra di avere riscontrato un esempio emblematico di tale contestazione, che si palesa grazie ad uno degli atti più naturali e, allo stesso tempo, più culturali che gli uomini praticano ogni giorno: l'alimentazione.
Diversi autori hanno dimostrato come alimentarsi non sia funzionale solo ed esclusivamente alla sopravvivenza biologica degli uomini, ma anche alla produzione simbolica e alla stessa esistenza della società[2]. Attraverso le pratiche alimentari, gli uomini veicolano quella che, forse un termine abusato di questi tempi, gli antropologi identificano come l’identità di un gruppo umano. Questo processo di affermazione identitaria non consiste soltanto nell’organizzazione di sagre da parte delle istituzioni pubbliche tese a valorizzare i “prodotti tipici” di qualche remota zona geografica. Esso, a mio avviso, consiste anche, e forse soprattutto, in un atto politico, un’azione cioè che tenti di delineare gli elementi peculiari di una comunità, i suoi orizzonti di valori e i simboli comunitari al fine unificare in un solo corpo sociale la stessa comunità e di differenziarla da un’altra che si percepisce diversa e, a volte, lontana e minacciosa.
Nei primi anni della sua attività, lo stabilimento di Termini Imerese era sprovvisto di una mensa al suo interno. Il cibo che veniva dato ai suoi dipendenti era cotto e confezionato da aziende che operavano all’esterno dello stabilimento. Tale cibo, spesso di scarsa qualità, era poco apprezzato dai lavoratori, i quali, provenienti nella maggior parte dei casi da un ambiente contadino, tendevano a portare all’interno dello stabilimento i prodotti che loro stessi avevano coltivato o allevato e che diventavano gli ingredienti di un cibo preparato e consumato nella pausa pranzo da quegli stessi operai.
Le modalità d’ingresso dei prodotti e della preparazione del cibo sono, in questo caso, molto interessanti. Tali ingredienti che, lo ripeto, erano profondamente legati al sostrato culturale e sociale degli operai, entravano in fabbrica in maniera clandestina, o presumibilmente tale. La preparazione dei cibi avveniva secondo modalità complesse, soprattutto se si tiene conto del divieto di cucinare e portare alimenti dall’esterno e della rigidità con cui erano scandite le pause durante le giornate lavorative. Questa preparazione, infatti, avveniva con la collaborazione di tutti quelli che prendevano parte a questo pasto di contestazione. In pratica succedeva che, l’addetto alla preparazione dei cibi (generalmente pasta condita con i sughi più vari e succulenti come il cinghiale o il nero di seppia) si allontanava dalla propria postazione di lavoro e la sua mansione era svolta dagli altri colleghi, i quali dovevano aumentare i ritmi di lavoro già, invero, abbastanza serrati.
A detta di tutti gli informatori che hanno preso parte a tali pranzi comunitari, questi avevano lo scopo di socializzare fra operai, creare una comunità e disertare la mensa aziendale di scarsa qualità. In quest’ottica, tali cibi diventavano il simbolo di una vera e propria contestazione nei confronti della fabbrica e un modo per trasformare un gruppo di individui (i singoli operai) in una comunità (la classe operaia), creando quella che io indico come una pratica di micro-resistenza al potere omologante e alienante della dimensione industriale[3].
Naturalmente, con il passare degli anni e l’apertura della mensa aziendale (la cosiddetta “mensa fresca”), tali pratiche di contestazione si sono di gran lunghe attenuate, anche se non sono del tutto scomparse. È tuttavia significativo rilevare come, negli ultimi giorni di produzione dello stabilimento, la consuetudine di pranzare insieme ai colleghi disertando la mensa aziendale sia ricomparsa fra gli operai più giovani e appartenenti a una generazione nettamente diversa da quella in cui tali pratiche erano usuali. Per questi giovani operai, mangiare insieme voleva dire riunirsi e riconoscersi negli ultimi giorni di una comunità di lavoratori che sarebbe esplosa e si sarebbe dislocata in un territorio molto vasto. Mangiare insieme così ha lasciato il sapore forte di ciò che si è e di ciò che si è stato prima di affrontare un lungo periodo d’incertezza e precarietà professionale ed esistenziale.
Attraverso queste poche e sicuramente non esaustive battute sul cibo in fabbrica, è possibile evincere come il cibo e le pratiche alimentari abbiano avuto un ruolo importante, veicolato ancora dal corpo, nella pratica di una micro-resistenza volta, nel caso del passato, al processo di omologazione industriale e, nel caso degli ultimi giorni di attività, all'affermazione di una presenza collettiva, che si configura come una fase preparatoria a una crisi del proprio essere-nel-mondo[4] incombente e, purtroppo, inevitabile

Riferimenti bibliografici
Balandier G., 1977, Società e dissenso, Dedalo Libri, Bari (ed. or. 1974, Anthopo-logiques, Presses Universitaires de France, Paris).
Csordas T. J., 1990, Embodiment as a paradigm for anthropology, in «Ethos», vol. 18, n. 1, pp. 5-47.
De Martino, 1997, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino.
D'Onofrio S., 1997, A banchetto con i morti, in Id., Le parole delle cose. Simboli e riti sociali in Sicilia, Congedo, Galatina, pp. 77-99.
Giallombado F., 2003, La tavola, l'altare, la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo.
Merleau-Ponty, M., 2003, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, p. 193 (ed. or. 1945, Phénoménologie de la Perception, Éditions Gallimard, Paris).
Montanari M., 2004, Il cibo come cultura, Laterza, Bari-Roma.
Neresini F., Rettore V. (a cura di), 2008, Cibo, cultura e identità, Carocci, Roma.
Scarpi P., 2005, Il senso del cibo. Mondo antico e riflessi contemporanei, Sellerio, Palermo.
Scott J. C., 2006, Il dominio e l'arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, Elèuthera, Milano (ed. or. 1990, Domination and the arts of resistance. Hidden transcripts, Yale University Press, New Haven).






[1] Utilizzo qui il termine contestazione nell’accezione di Georges Balandier, secondo cui con questa parola più che un atto rivoluzionario, e che quindi si pone al di fuori dell’ordine in vigore in un dato momento, dovrebbe indicare un atto di protesta che non ha la pretesa di assurgere a pensiero dominante e di sovvertire l’ordine delle cose (per approfondimenti cfr. Balandier 1977: 246-247).
[2] Cfr., solo a titolo di esempio, il ciclo di pubblicazioni prodotte da Claude Lévi-Strauss e conosciute con il titolo di Mithologiques. Solo a titolo di esempio e senza nessuna pretesa di esaustività si vedano seguenti lavori: Montanari (2004), Scarpi (2005), Neresini e Rettore (2008), Giallombardo (2003) e D'Onofrio (1997: 77-99).
[3] Con il termine “micro-resistenza” intendo tutte quelle pratiche, eseguite al livello subalterno, episodiche, non strutturate all'interno di associazioni politico-sindacali e circoscritte a pochi individui, volte a resistere, negoziare o attenuare le principali istanze e caratteristiche provenienti dalla classe egemone. Questo termine è vicino, anche se non totalmente coincidente, a quello che James C. Scott definisce “verbale segreto”, secondo cui: «Se il discorso del subordinato in presenza del dominante è un verbale pubblico, userò il termine verbale segreto per indicare il discorso che ha luogo “dietro le quinte”, fuori dall'osservazione diretta di chi detiene il potere. Il verbale segreto è così una derivazione, nel senso che è costituito da quei discorsi, gesti, pratiche fuori scena che confermano, oppure contraddicono, o semplicemente modificano, ciò che appare nel verbale pubblico» (Scott, 2006: 17-18. Corsivi dell'autore). Ciò che distingue la nozione di micro-resistenza da quella di verbale segreto sono principalmente i contesti di riferimento estremi (schiavitù, regimi dittatoriali, ecc.) cui fa ricorso James Scott per spiegare e dimostrare l'esistenza del verbale segreto. È innegabile tuttavia che le pratiche di micro-resistenza fanno parte di quella che lo stesso Scott ha definito come infrapolitica, cioè: «… quella grande varietà di resistenze di basso profilo che non osano dichiararsi apertamente. Cogliere la sostanza di questa infrapolitica, le sue mascherature, le sue finzioni, e il suo rapporto con il verbale pubblico, può aiutarci a chiarire diversi spinosi problemi dell'analisi politica» (Ibid.: 36).
[4] Per quanto riguarda la nozione di essere-nel-mondo e la questione della presenza collettiva e comunitaria è doveroso rinviare qui al testo di Ernesto de Martino (1997). Per la stessa nozione di essere-nel-mondo, con particolare riferimento alla questione del corpo e della percezione di questo, cfr. Merleau-Ponty (2003: 193) e, per un taglio decisamente più antropologico, Csordas (1990: 5-47).

sabato 10 agosto 2013

Corpi in fabbrica. La femminilizzazione del lavoro e la cancellazione dell'identità sessuale (II parte)

Nel post Corpi in fabbrica. Assoggettamento e resistenza (I parte) ho esposto la mia prospettiva analitica riguardo i modi in cui il corpo entra in fabbrica e le dinamiche che scaturiscono da questo processo di incontro/scontro. In linea con quello scritto, presento qui il caso di una informatrice costretta, per lavorare in fabbrica e "fare carriera", ad attenuare, e in alcuni casi a cercare di cancellare, la sua identità di genere anche se all'interno di un ampio processo di femminilizzazione che ha investito il mondo del lavoro contemporaneo. 

Durante la mia frequentazione del campo e degli informatori non avevo mai né conosciuto, né visto fra i lavoratori G. S. Un giorno G. I. mi ha parlato di questa ragazza coraggiosa e capace che da semplice operaia è riuscita a diventare caposquadra, pur non riuscendo ad ottenere la qualifica ufficialmente e che, nel periodo iniziale della chiusura dello stabilimento, era stata spostata nella fabbrica di Pomigliano D’Arco, per insegnare agli operai campani ad ottenere standard qualitativi più alti. A quel punto, incuriosito, ho chiesto a G. I. di mettermi in contatto con questa ragazza e dopo un paio di giorni, avvertita preventivamente, l’ho chiamata al telefono per fissare un incontro nella sua casa di XXX, dove vive con il marito. Quando mi sono recato a trovarla, mi si è presentata una ragazza di media altezza, magra e asciutta in tuta da ginnastica con una lunga coda di capelli neri tirati indietro, una grande vitalità negli occhi e una voglia ancora più grande di raccontarmi la sua storia. Mi ha fatto accomodare nel salotto di casa sua, dove si trovavano un paio di borsoni del marito, militare in partenza per una missione in Afganistan.
Dal momento in cui ci siamo accomodati G. S., senza darmi il tempo di formulare nessuna domanda, comincia a parlare della Fiat di Termini Imerese. Per lei, assunta poco più che adolescente, il suo percorso lavorativo e di formazione professionale coincide anche con una dura fase di crescita e formazione individuale. La sua carriera, tutta in ascesa fino alla chiusura dello stabilimento, rientra all’interno di quel processo di femminilizzazione del lavoro che si è affermato, in anni recenti, al livello internazionale1. Tale processo, per come lo definiscono, fra gli altri, Annalisa Murgia e Emiliana Armano, consiste:

[Nell’] aver incorporato «le doti, tradizionalmente femminili, della duttilità, del multitasking, dell’obbedienza, del lavoro gratuito, dell’ascolto e della propensione alla cura». Quella che è stata definita “femminilizzazione del lavoro” non è stata, infatti, sinonimo di maggior equilibrio di genere nel mondo del lavoro, ma si è tradotta piuttosto in una generalizzazione di precarietà e sfruttamento, che da sempre caratterizzano i lavori delle donne. E, contemporaneamente, hanno teso a diventare dei luoghi economici tutti gli spazi di vita degli individui, con lo sgretolarsi delle barriere tra i luoghi del lavoro e di vita privata, e tra tempi di produzione e di riproduzione (Murgia, Armano 2012: 12).

Tale dinamica, nella vicenda di G. S., è evidente dalla varietà di mansioni che la giovane donna ha svolto per lunghi anni all’interno dello stabilimento e, a conferma dello stato generale «di precarietà e sfruttamento, che da sempre caratterizzano i lavori delle donne», dal fatto che, pur svolgendo la mansione di caposquadra nella pratica, l’informatrice non ha mai avuto un formale riconoscimento da parte dell’azienda per le mansioni da lei svolte. Tale situazione, oltre che arrecarle un grave danno economico, nella fase attuale instilla nel soggetto un senso di fallimento e di delusione, che a tratti sfocia nel risentimento nei confronti della fabbrica.
Il caso di G. S. è emblematico anche per le varie implicazioni che coinvolgono il corpo del lavoratore e, allo stesso tempo, la sua appartenenza di genere.
G.: [Lo stabilimento] è un luogo dove tu riesci ad avere realmente a che fare con tutti i ceti e tutti i livelli culturali, quindi è un ambiente per me meraviglioso, perché: ti dà tantissimo spirito di adattamento, perché tu o ti adatti o se no rimani esiliato per tutta la vita; ti dà il modo di confrontarti con tutti; essendo donna, ti dà molta forza devi acquisire tantissima fiducia in te stessa, perché lì dentro la donna ancora veniva vista, e ti parlo di quattordici anni fa, veniva vista ancora come: “Tu sei femmina e devi stare a casa; tu non sei in grado di potere montare una macchina; tu non sei in grado di potere alzare un peso; tu non sei in grado di dare ordini a me che sono un uomo.” […] Non è facile per una donna, a Termini Imerese perché negli altri stabilimenti non è così, ma a Termini Imerese non è facile per una donna andare avanti.
T.: E tu come ci sei riuscita?
G.: Io ci sono riuscita, ma io ho un carattere non molto femminile, nel senso che se tu a me mi dici che io una cosa non la riesco a fare, ma io, guarda, ma anche se è l'ultima cosa che faccio nella mia vita, ma io la devo fare. […] Ti posso dire che malanni e danni addosso a me stessa me ne sono fatti in quantità illimitata, nel senso che ho avuto punti, mi sono venuti i tunnel carpali, mi sono rotta il ginocchio, mi sono lussata la rotula. Guarda, io quando sono stata ai motori... il reparto motori forse è quello che mi ha fatto crescere veramente...
T.: Quindi c'erano anche dei problemi fisici?
G.: Sì, che alla fine ci sono, non è che non ci sono. Perché se devi assemblare un motore...
La fabbrica è il luogo in cui l’individualità di G. S. si incontra/scontra con il mondo. In questo processo di incontro/scontro ciò che emerge lampante è la necessità di mettere da parte l’identità di genere di G. S. affinché quel mondo e chi lo abita la possano rispettare come donna e come superiore. La fabbrica è, come già accennato, il luogo della crescita e dell’esperienza ed è significativo come la stessa informatrice indichi implicitamente come tali processi passino attraverso il suo corpo. È, infatti, la linea di montaggio dei motori che, come la stessa G. S. rileva, le permette di crescere e di fare esperienza, ma è, allo stesso tempo, il luogo in cui il suo corpo è sottoposto ad uno sforzo che va oltre i suoi limiti e che subisce spesso degli infortuni. Nel primo caso la costruzione di una chiave speciale, che modifica il suo corpo permettendole di aprire ancora di più le braccia e di esercitare la forza necessaria ad assemblare il motore, rende il soggetto abile al lavoro; nel secondo caso, tali accorgimenti e modifiche corporali non mettono la lavoratrice al riparo da infortuni e da conseguenze fisiche anche gravi.
Il caso appena riportato permette di analizzare il coinvolgimento del corpo all’interno del processo produttivo in tutta la sua potenza e centralità, raggiungendo, in alcuni momenti, picchi di tragicità. Innanzitutto l’ingresso in fabbrica costituisce per G. S. una presa di coscienza e un auto-riconoscimento del suo essere donna e, in linea di massima, diversa dalla maggior parte dei suoi colleghi. In questo processo di identificazione e di crescita l’informatrice è stata costretta a mettere da parte alcuni tratti che vengono comunemente riconosciuti come “femminili” (debolezza fisica, emotività, dolcezza) con dei tratti che altrettanto comunemente vengono identificati come “maschili” (forza fisica e morale, durezza, inflessibilità di fronte alle avversità). Tuttavia, questa rinuncia ad una parte della femminilità è operata all’interno di un più generale processo di femminilizzazione del mondo del lavoro, che ha fatto suoi alcuni caratteri dei lavori e delle capacità attribuite principalmente alle donne, al fine di rendere la condizione dei lavoratori più flessibile e, in alcuni casi, più precaria. Questa apparente contraddizione è un tratto che rientra perfettamente nei processi che Michel Foucault definisce, di assoggettamento dei corpi. In questo assoggettamento dei corpi ciò che si richiede al lavoratore è di essere produttivo e, in questa ottica, i tratti o gli strumenti che vengono selezionati per raggiungere tale produttività sono di diversa natura, cangianti e mescolati fra loro. In altre parole ciò che entra in gioco nel processo produttivo industriale sono le dinamiche di potere dal carattere governamentale, caratteristiche del capitalismo e, ancora più accentuatamente, nel neo-capitalismo2.
Infine, G. S. presenta un caso estremo in cui il processo produttivo si palesa in tutta la sua pre-potenza plasmatrice della corporeità che si spinge oltre i limiti delle possibilità fisiche del lavoratore stesso fornendo mezzi sui generis (la speciale chiave costruita dal capo di G. S.), che dovrebbero trasformare il corpo del lavoratore. Tuttavia, quando questi limiti si esercitano oltre un certo limite le rotture, i danni e le ripercussioni al livello fisico, come dimostra il caso presentato, sono inevitabili.
Quello di G. S. è un caso limite in cui il processo di assoggettamento dei corpi si esercita in maniera eccessiva. Tuttavia, come ha mostrato James C. Scott (2006), gli uomini attivano generalmente dei meccanismi di resistenza e di eversione al/dal potere, che gli permettono di rimodulare le istanze esterne e attuare delle pratiche volte alla sopravvivenza e al miglioramento delle proprie condizioni di vita. Un esempio di questi modi di eversione e resistenza può essere il caso degli operai tatuati di cui ho già parlato nel post precedente o un gruppo di operai di Termini Imerese che, disertando la mensa aziendale e cercando di affermare la propria dignità e la propria identità, preparavo il cibo all'interno della fabbrica praticando un atto, discreto e silenzioso, di contestazione nei confronti dell'azienda.

Riferimenti bibliografici
Arienzo A., 2007, Governo, governamentalità, governance. Riflessioni sul neo-liberalismo contemporaneo, in Vinale A. (a cura di), Biopolitica e democrtazia, Mimesis, Milano, pp. 251-277.
Foucault M., 2005, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano (ed. or. 2004, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Seuil-Gallimard, Paris).
Freeman C., 2011, Neoliberalism. Emboding and affecting neoliberalism, in Mascia-Lees F. E. (a cura di), A companion to the anthropology of the body and ambodiment, Blackwell Publishing, Chichester, pp. 353-369.
Murgia A., Armano E. (a cura di), 2012, Mappe della precarietà. Spazi, rappresentazioni, esperienze e critica delle politiche del lavoro che cambia, Vol. I, Emil di Odoya, Bologna.
Scott J. C., 2006, Il dominio e l'arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, Elèuthera, Milano (ed. or. 1990, Domination and the arts of resistance. Hidden transcripts, Yale University Press, New Haven).
1 Per maggiori approfondimenti sulla questione della “femminilizzazione del lavoro” ancora poco analizzato dagli studiosi di scienze sociale cfr. Freeman 2011: 353-369.


2Per maggiori approfondimenti sulla nozione di governamentalità cfr. Foucault 2005; De Martino 2009/2010-2011/2012; Arienzo 2007: 251-277.

sabato 3 agosto 2013

Corpi in fabbrica. Assoggettamento e resistenza (I parte)

Nel post precedente ho cercato di concentrare l'attenzione su come il processo produttivo industriale investa e agisca anche e principalmente sui corpi dei lavoratori, partendo dalla mia diretta esperienza. Nel presente post continuo su quella traccia di analisi introducendo i casi etnografici da me riscontrati e approfondendo le riflessioni che vertono sul rapporto corpo/fabbrica. Ciò che tenterò di analizzare è il fatto che i corpi non sono solo i luoghi passivi dell'assoggettamento del processo produttivo neocapitalistico, ma anche i luoghi primari in cui quei processi vengono contrastati attraverso, quelli che in seguito, saranno presentati come atti di micro-resistenza a quei processi.

In un caldo pomeriggio di luglio, nella fabbrica dove lavoro, è stata indetta una riunione con tutto il personale dell’azienda. Oggetto della riunione era informare i lavoratori che un operaio, di cui naturalmente non è stato fornito il nome per il rispetto della privacy, ha contratto la tubercolosi polmonare. È stato comunicato, inoltre, che all’interno dello stabilimento è cominciata la procedura di profilassi e che potrebbero essere eseguiti esami anche ai colleghi che lavorano a stretto contatto con l’operaio ammalato. Mentre il capo del personale illustrava la questione, noi tutti ascoltavamo con rispettoso silenzio. Di fronte a me si trovava un gruppo di operai, quattro o cinque in totale, tutti fra i trenta e i trentasei anni e con contratti a tempo indeterminato. I capelli rasati, le barbe lunghe, i fisici palestrati e interamente ricoperti dai tatuaggi rendevano questo gruppo di operai diverso rispetto a tutto quello che li circondava. Essi non indossavano mai la tuta da lavoro e le scomode scarpe antinfortunistiche, bensì abiti sportivi e scarpe da tennis. Mentre noi tutti, interinali a scadenza, giravamo per lo stabilimento su muletti e commissionatori con l’ansia di raggiungere la soglia minima di produzione (150 linee da prelevare), era possibile vedere questi ragazzi stare placidamente seduti sui loro carrelli, al centro della piazza delle spedizioni, e chiacchierare per interi quarti d’ora e più. Guardandoli mi venivano spesso in mente i pirati o le gang di motociclisti duri e con le arie truci dei film americani.
La questione dell’operaio tubercolotico e la visione di questi lavoratori sui generis porta al centro della riflessione sulle pratiche lavorative, la questione del corpo e di come attraverso di esso passano tutte le nostre esperienze e, allo stesso tempo, di come questo sia il mezzo principale di accesso al mondo e il simbolo primario di noi stessi all’interno della società e, nel caso qui in esame, nell’ambito dei contesti di lavoro industriale.
Nel caso dell’operaio malato, la tubercolosi è il segno che il corpo di quell’uomo è diventato inabile al lavoro e sostanzialmente inutile ai processi produttivi formali del neocapitalismo. La tubercolosi, però, può essere trasmessa ai corpi degli operai che lavorano a stretto contatto con il malato. In questo caso, la trasmissione diventa anche il segno visibile delle nostre relazioni sociali. Essa traccia una mappa di quella che gli antropologi hanno definito un network, cioè una rete di relazioni sociali, più fluide e cangianti delle strutture, che caratterizzano i rapporti interindivuduali nelle grandi città postmoderne (Hannerz 1980: 163-201). È anche attraverso il contagio che la mappa delle relazioni sociali si rende visibile e che è possibile oggettivare chi siamo, cosa facciamo e a quale comunità apparteniamo.
Nel caso, invece, degli operai tatuati, entrati in fabbrica poco più che adolescenti, il corpo, scolpito dalla palestra e disegnato dai tatuaggi, è il mezzo attraverso cui esprimere la propria diversità. Attraverso le decorazioni corporali, essi sembrano dire a tutti quelli che li circondano: “Siamo qui dentro come tutti voi, ma non siamo come voi!”. È profondo il mio sentimento di empatia, in questo caso, per averlo provato io stesso, sebbene in un grado infinitamente più basso e transitorio rispetto a loro. Nel mio caso, infatti, mi è bastato indossare un paio di jeans, invece che la tuta da lavoro perché sporca, per percepirmi ed essere percepito diverso dai miei colleghi. Mi è accaduto spesso, infatti, di essere oggetto di battute di spirito da parte degli altri lavoratori con cui intrattenevo un rapporto confidenziale, i quali scherzosamente mi dicevano: “Oggi ci siamo vestiti da fighettini!”.
È anche attraverso questo modo di abitare i corpi, nell’accezione di Pierre Bourdieu (1972: 259-261), che si può riscontrare uno dei mezzi per fare fronte alla alienazione e alla omologazione, che con la modificazione del sistema di produzione da una fase taylorista ad una di flessibilizzazione, ha assunto caratteri sempre più pervasivi. Come scrive, infatti, Federico Chicchi:

Il farsi rilevante degli aspetti di prossimità personale nei rapporti organizzativi, l’entrare i gioco dunque del piano razionale e strategico della produzione di aspetti relazionali e comunicativi che prima non partecipavano della vita produttiva, pone le basi per una nuova struttura di definizione del valore del lavoro. Il divenire rilevanti, sul piano stesso dell’agire strategico e strumentale, di aspetti intimi della persona, delle sue capacità stesse di governare il suo rapporto con l’ambiente e con i suoi abitanti più prossimi appare, infatti, oggi sempre di più un elemento imprescindibile dell’azione di comando sul lavoro. Questo processo di “approfondimento” verticale del rapporto produttivo sulla persona definisce quindi e di conseguenza anche una nuova struttura del potere organizzativo. È il tema che in filosofia politica è stato definito, tramite il lessico foucaultiano, come il passaggio dal governo alla governamentalità, intesa quest’ultima come una nuova e pervasiva tecnica di controllo delle condotte sociali che si differenzia dalle tradizionali azioni di disciplina gerarchica dell’agire sociale e che si caratterizza, tra l’altro, per il mettere a valore non solo gli aspetti meramente operativi e professionali del fare sociale, ma ogni aspetto della vita umana (Chicchi 2008: 118).

È in tale ottica che il corpo, al di là di una visione che lo vede come mero oggetto di assoggettamento, si configura come luogo in cui le dinamiche di potere fra datore di lavoro e lavoratore trovano il loro primo ambito di negoziazione. Nel corso di questo scritto si prenderanno in esame tre casi in cui il corpo è centrale nella questione della Fiat di Termini Imerese.
Il primo caso riguarda la procedura di assunzione in fabbrica che ha il suo incipit e il suo punto fondamentale nel momento delle visite mediche ai fini dell’assunzione. In questo caso, le visite, oltre che accertare lo stato di salute del lavoratore e la sua idoneità a svolgere determinate mansioni, ha anche lo scopo di fare percepire al lavoratore che il suo corpo, nel momento dell’assunzione, diventa, per un certo grado, anche di proprietà dell’azienda e in quanto strumento aziendale deve essere trattato con cura, rispettato e, soprattutto, preparato ad adattarsi al lavoro.
Il secondo caso, invece, è volto all’analisi dei processi attraverso cui il corpo è adattato al lavoro, allo sforzo che il soggetto lavoratore è costretto a operare per adattarsi ai lavori usuranti e agli incidenti che possono accadere nel momento in cui tale sforzo supera un certo limite, strettamente soggettivo.
Il terzo caso, infine, intende indagare la vicenda di un gruppo di operai dello stabilimento Fiat che, soprattutto in passato, tendevano, attraverso il cibo e il pasto comunitario all’interno dello stabilimento, a mettere in pratica atti di micro-resistenza al potere omologante e alienante della fabbrica.
Nei primi due casi la descrizione, oltre che basata su alcune testimonianze di operai Fiat attualmente in cassa integrazione, è accompagnata anche da una esperienza diretta delle vicende legate al corpo nei contesti industriali. Ciò perché ho ritenuto indispensabile capire fino in fondo e sulla mia pelle alcune questioni, profondamente intime, legate ad una dimensione la cui esperienza è difficilmente traducibile in parole. Il terzo caso, invece, è strettamente legato ad una dimensione peculiare ed è per questo che è basato sulle sole narrazioni degli operai dello stabilimento Fiat ormai in dismissione. Tuttavia, anche in questo caso, la mia diretta esperienza del lavoro di fabbrica e dei tempi e dei ritmi che questo impone, mi ha permesso di valutare come quegli atti che i soggetti, seppure consapevoli di trasgredire ad alcune regole, percepivano come normali, assumono i caratteri di una vera e propria contestazione e di una fortissima affermazione identitaria.

Riferimenti bibliografici
Chicchi  F., 2008, Riflessioni di sintesi: pluralizzazione dei regimi di azione e capitalismo di prossimità in La Rosa M., Borghi V., Chicchi F. (a cura di), Le grammatiche sociali della mobilità. Una ricerca sulle condizioni del lavoro nella provincia di Bologna, Franco Angeli, Milano, pp. 107-121.
Hannerz U., 1980, Exploring the city. Inquiries towards an urban anthropology, Columbia University Press, New York.
Bourdieu P., 1972, Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Géneve.