Racconti dal mondo precario

domenica 16 dicembre 2012

Flessibilità, precarietà e la forza dei simboli

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Il Tempo e lo Spazio sono morti ieri. Noi viviamo già nell'Assoluto, avendo già creato l'eterna velocità»
Filippo Tommaso Marinetti, 1909, Manifesto futurista

Da qualche anno stiamo assistendo, nel nostro paese, al palesarsi di una modificazione profonda e incisiva di uno degli aspetti fondamentali della vita degli uomini di ogni tempo e luogo: il lavoro.
È dal 1973, cioè da quella che è passata alla storia come la prima vera crisi energetica e produttiva del sistema capitalistico occidentale, che i proprietari dei mezzi di produzione si sono resi conto che il metodo produttivo doveva essere modificato: la produzione, su grande scala dei beni di consumo, non poteva essere perseguita all'infinito dal momento che cominciava a delinearsi la tanto temuta saturazione dei mercati. Si doveva cambiare filosofia e modo di produzione, un modo che rispondesse in maniera più pronta e veloce alle fluttuazioni, sempre più frequenti e improvvise, dei mercati (cfr. Harvey, 1990). È proprio fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta che in Occidente si comincia a diffondere, nell'ambito della produzione industriale, il termine flessibilità.
Come ha scritto il sociologo Dan Jonsson, che in un saggio del 2007 cerca di fare ordine intorno al concetto di flessibilità:
Flexibility is the propensity of an actor or a system to exhibit variation in activities or states which is correlated with some other variation and desirable in view of this variation (Jonsson, 2007: 31).
Quindi il concetto di produzione flessibile è relazionale e tiene conto non solo delle fluttuazioni di mercato, ma anche del contesto sociale, culturale e politico in cui una determinata azienda opera.
Esempi del modificarsi della filosofia produttiva, che passa dalla fase taylorista (organizzazione scientifica del lavoro proveniente dai quadri dirigenziali, burocratizzazione delle varie fasi produttive, tempi di lavorazione precisi e rigidi) ad una fase di produzione post-taylorista (organizzazione del lavoro in cui i dipendenti sono, o dovrebbero essere, i protagonisti, cancellazione di tutta la burocrazia, tempi di lavoro flessibili e fluttuanti) sono evidenti nella produzione di automobili. In questo caso, per esempio, l'ingresso del just in time, della Qualità Totale, del concetto di Fabbrica Integrata e del sistema di produzione definito come Toyotismo sono un evidente segno del passaggio alla fase flessibile della produzione industriale (per approfondimenti cfr. Bonazzi, 1993; Bonazzi, 2008; Ohno T., 1978).
Naturalmente questo passaggio non si è limitato ad agire soltanto nel modo di produzione. Esso ha influenzato in maniera profonda la vita dei lavoratori coinvolti nel processo di flessibilizzazione del lavoro almeno su quattro aspetti: le relazioni fra dirigenti e dipendenti, i tempi di lavoro, il luogo di lavoro e la remunerazione. Per quanto riguarda le relazioni fra dirigenti e dipendenti, esse si sono modificate profondamente e si registra una grande varietà di opinioni. In alcune fabbriche automobilistiche dell'Australia, per esempio, la flessibilità, unita agli incentivi produttivi, incontra il favore anche dei lavoratori (cfr. Cooney, Sewell, 2008: 127-150); in Brasile lo stesso metodo di produzione ha scatenato le ire dei dipendenti delle aziende che lavorano per la Volkswagen di Resende. Per questi ultimi lavoratori, infatti, flessibilità vuol dire soltanto più ore di lavoro per gli stessi salari, licenziamenti più facili e maggiori responsabilità (cfr. Ramalho, Francisco, 2008: 151-172). In Italia, la flessibilità, arrivata soltanto nel 19931 e cominciata ad essere regolamentata solo a partire dal 1997, ha sconvolto le relazioni fra dipendenti e operai, ma anche fra aziende e classe politica. In generale, nel nostro Paese, la classe dirigente (politica, aziendale e sindacale) non è stata in grado di gestire l'ingresso e la portata delle modifiche della flessibilizzazione del mondo del lavoro. Tale incapacità si è palesata in una vera e propria selva di contratti “flessibili” (fino alla riforma Biagi si contavano più di 40 contratti atipici) che si è tradotta con una sostanziale deregulation del mondo del lavoro le cui principali vittime sono state i lavoratori.
In Italia, inevitabilmente, al termine flessibilità si è accompagnato il termine precarietà e i precari (perlopiù giovani e donne) sono diventati una porzione sociale sempre più importante. La peculiarità della condizione precaria di uomini e donne ha portato molti studiosi di scienze sociali a parlare di una nuova classe sociale, per usare un termine di origini marxista, una classe in sé cioè uno strato sociale che esiste anche se gli appartenenti ad esso non ne hanno coscienza. Secondo Guy Standing:
Quel che manca ai precari, oltre la sicurezza lavorativa e il reddito sociale, è l'identità professionale. Quando vengono assunti, occupano posti che non danno prospettive di carriera, per cui non vi è una tradizione o una memoria condivisa e non si prova la sensazione di appartenere a una comunità occupazionale inquadrata in pratiche consolidate, con codici e norme di comportamento e rapporti di reciprocità e fraternità. Il lavoratore precario non si sente integrato in una collettività lavorativa solidale. Ciò accresce il senso di alienazione e strumentalizzazione nell'assolvimento del proprio compito. […] Al precariato manca una identità professionale, sebbene alcuni una qualifica ce l'abbiano, mentre altri rispondono a titoli alla moda e improbabili (Standing, 2012: 29-30).
Affinché un classe passi da classe in sé a classe per sé, acquisti cioè coscienza e si ritrovi in interessi e obiettivi comuni è necessario che i lavoratori recuperino una concezione geertzianamente ideologica (cfr. Geertz, 1988: 223-298). Ciò significa che è necessario recuperare la profondità storica, temporale e mitica di un apparato culturale capace di creare e condividere simboli, obiettivi e interessi. Solo attraverso il recupero di un universo di senso comune, alla cui realizzazione è fondamentale la forza dei simboli, la loro verità e la loro menzogna, è possibile creare un nuova coscienza di classe.

Riferimenti bibliografici
  • Bonazzi G., 1993, Il tubo di cristallo. Modello giapponese a Fabbrica Integrata alla Fiat Auto, il Mulino, Bologna.
  • Bonazzi G., 2008, Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, Milano.
  • Cooney R., Sewell G., 2008, From lean production to ma customisation: recent developments in the Australian Automotive Industry, in Pulignano V. et al., 2008, Flexibility at work. Critical developments in the international automobile industry, Palgrave Macmillan, New York, pp. 127-150
  • Geertz C., 1973, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York (trad. it 1988, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna).
  • Harvey D., 1990, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell (trad. it. di Maurizio Viezzi, 2002, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano).
  • Jonsson D., 2007, Flaxibility, stability and related concepts, in Furåker B., Håkansson K, Karlsson J. C. (a cura di), 2007, Flexibility and stability in working life, Palgrave Macmillan, New York, pp. 30-41.
  • Ohno T., 1978, Toyota seisan hōshiki, Diamond Inc., Tokyo (trad. it., 1993, Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale. E il suo prezzo, Einaudi, Torino).
  • Ramalho J. R., Francisco E. M. V., 2008, Labour relations in the modular system: ten years of vw experience at Resende, Brazil, in Pulignano V. et al., 2008, Flexibility at work. Critical developments in the international automobile industry, Palgrave Macmillan, New York, pp. 151-172.
  • Standing G., 2012, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna (ed. or. 2011, The Precariat: The new dangerous class, Bloomsbury Academic, London-New York).
1Questa è la data, infatti, in cui si apre lo stabilimento della SATA-FIAT di Melfi. Esso rappresenta il primo esempio di stabilimento progettato, costruito e aperto secondo i dettami del toyotismo e del just in time.

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