Racconti dal mondo precario

sabato 27 luglio 2013

La visita medica ovvero l'assoggettamento dei corpi


Il corpo è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l'investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l'obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. È in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se esso viene preso in un sistema di assoggettamento […]: il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato. Questo assoggettamento non è ottenuto coi soli strumenti sia della violenza che dell'ideologia; esso può assai bene essere diretto, fisico, giocare della forza contro la forza, fissarsi su elementi materiali, e tuttavia non essere violento; può essere calcolato, organizzato, indirizzato tecnicamente, può essere sottile, non fare uso né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico 
(Foucault, 1993, Sorvegliare e punire, Mondadori, Milano: 29).

Diversi autori hanno posto l'accento su come il modo di produzione capitalista abbia funzionato e sia diventato imperante grazie anche alla sua capacità, tramite tutta una serie di meccanismi e istituzioni, di assoggettare i corpi, di piegarli ai propri scopi e di fare in modo che quei corpi siano funzionali al processo produttivo. Naturalmente per fare ciò chi detiene i mezzi di produzione e il capitale ha la necessità che il processo di assoggettamento dei corpi inizi molto prima del lavoro del soggetto. La visita medica, che alcune categorie di lavoratori devono sostenere, ha senza alcun dubbio lo scopo di accertare l'ottimo stato di salute del lavoratore così che costui non sia dichiarato idoneo a svolgere determinate mansioni evitando pericoli inutili sia allo stesso lavoratore sia a tutti coloro che gli stanno attorno, ma ha anche lo scopo di inserire quel soggetto all'interno di una logica di controllo sempre più pervasiva. Il testo che segue è uno stralcio del mio diario di campo ed è volto a descrivere ciò che avviene durante una banalissima visita medica. E' dietro questa apparente banalità che i soggetti sono imbrigliati sempre più spesso nelle maglie di un sistema economico, sociale e di pensiero che segna, nel bene e nel male, il corso delle loro vite.


Torino, 17/04/2013
Ore 07,30. Arrivo presso un centro di analisi cliniche in via dei Mille, dove una signora bionda mi accoglie, mi fa firmare una informativa sulla privacy e mi indirizza verso le varie stanze in cui si svolgeranno le visite.
Scendo al seminterrato. Qui, davanti alla porta dell'otorino, incontro il primo operaio, uno di quelli che dovrebbero essere miei colleghi alla X&X. Si chiama Claudio, è un uomo sulla quarantina, originario di Ischia, ma che ormai vive qui da molti anni. 
Dopo una breve attesa, entro per sottopormi alla visita. La stanza ha le mura tappezzate di un materiale spugnoso per renderla insonorizzata; al centro si trova una poltrona, di fronte a questa, a mo' di semicerchio, c'è un pannello che separa la postazione dell'esaminando da quella dell'esaminatore. Questi è un medico che si trova al di là del semicerchio. E' un uomo di circa cinquanta o sessant'anni e indossa una camicia celeste, un paio di pantaloni blu scuro, le scarpe sono di pelle marrone e la cravatta è grigia e blu. Parla con un forte accento piemontese e subito mi fa accomodare sulla poltrona al centro della stanza. Comincia con delle domande: "Ci senti bene?" "Si." "Hai problemi alla respirazione?" "Soltanto quando sono raffreddato." (spero che mi guardi in faccia e mi faccia un  sorrisetto... nulla). "Hai delle allergie?" Mi aspettavo questa domanda, ma, in ogni caso, mi sento a disagio poiché è come se entrasse nella mia intimità, facesse emergere le debolezze del mio corpo -tutto sommato giovane- e me le mettesse davanti: la fragilità corporea condivisa con uno sconosciuto, l'oggettivazione della mia mortalità. "Si" rispondo "sono allergico alle penicillina, cefalosporine e derivati e ai frutti di mare." Annota tutto senza fare una piega, poi mi chiede di indossare delle cuffie dalle quali riesco a sentire impercettibili rumori: devo alzare la mano corrispondente alla provenienza del rumore. La prima visita è finita.
Risalgo al pianoterra e la signora bionda mi spedisce verso la stanza dei prelievi. Qui trovo di nuovo Claudio, ma questa volta la fila è un po' più lunga. Si fanno discorsi da sala di attesa. Una signora avanti, negli anni elogia i miracoli della sigaretta elettronica, che le ha permesso di staccarsi dalle normali sigarette di tabacco; Claudio risponde che lui fuma poco, ma a smettere non ci pensa proprio: fuma sigarette di contrabbando che ormai, a Torino, si trovano solo provenienti dall'est europeo. Un signore alto, anche lui sulla quarantina, pelato e con un lungo pizzo sotto il mento dice che anche lui fuma, ma non ha mai comprato la sigaretta elettronica perché ha il sospetto che faccia più male di quelle normali. Decido di partecipare anche io alla discussione e dichiaro che, pur avendo cominciato a fumare le sigarette confezionate, adesso riesco solo a fumare quelle che mi faccio io stesso con il tabacco puro al 100%, come al solito, soprattutto con le persone più grandi, quando dici una cosa del genere fai la parte dell'alternativo e, a volte del fricchettone, di turno.
A proposito di turno: adesso tocca a me. La dottoressa, anche questa sulla sessantina, mi fa accomodare su una sedia di fronte ad un tavolo su cui sono già sistemati un panno verde, un ago a farfalla, due provette, un rotolo di nastro adesivo e qualche velo di garza imbevuta di alcool etilico. La dottoressa prende i fogli su cui sono scritti il mio nome, l'azienda per cui dovrei andare a lavorare e l'agenzia interinale tramite cui dovrei essere assunto. Mi chiede di scoprirmi il braccio e di poggiarlo sul tavolo. Fatto questo, mi applica un laccio emostatico, inserisce l'ago e mi porta via due provette di sangue. Poi mi porge un vasetto, mi chiede di andare in bagno e di riempire il vasetto di urina. Riscendo al seminterrato, mi chiudo in bagno e tiro fuori il pene. Per un momento mi viene in mente un pensiero stupido: e se non riesco a farla? Cosa succederebbe? L'unica risposta è anche la più banale: probabilmente non sarei assunto. In ogni caso, riesco a farla, risalgo al primo piano e ripongo il vasetto con la mia urina all'interno di una cassetta-frigo riposta davanti alla porta.
Ritorno al desk della signora bionda e mi metto in fila davanti alla porta dell'oculista. Siamo adesso una decina di uomini che dovrebbero essere tutti assunti dalla X&X. Qui si comincia a scherzare fra noi e con chi ha fatto già il test oculistico. "Tu che ci hai visto?" "Ma io non ho visto nulla!" "Io ho visto una pecora!" "Io una macchina!". Poi si parla del più e del meno e quando dico che vengo da Palermo scopro che i miei potenziali colleghi sono tutti meridionali o comunque ne hanno le origini. Molti sono siciliani: Palermo, Monreale, Naso, Caltanissetta sono nomi che si librano nell'aria e che tracciano le mappe di povertà passate, di speranze per il futuro e rotte migratorie su cui studiosi, imprenditori e politici hanno costruito le loro fortune. Mi chiedono come mai sono lì, se a Palermo la situazione lavorativa è così tragica, se ho intenzione di sistemarmi a Torino, mettendomi davanti domande a cui non so dare una risposta. Vedremo, vedremo. Posticipo ogni decisione con questa parola che ha assunto la potenza e l'inconsistenza di una formula magica. Vedremo e il futuro diventa solo una navigazione a vista in cui si perde il senso della meta, in cui scompare la meta stessa. 
Mi raccontano dei loro lavori passati, delle aziende metalmeccaniche dove hanno sempre lavorato come operai precari, delle condizioni di lavoro dure ed estreme e, nemmeno a dirlo, di diritti negati, di paghe mai ricevute e mi rendo conto, solo adesso, che ho paura. E se anche io dovessi lasciare tutto per nulla? E se anche io dovessi buttar anni di studio, lavoro, fatiche immani e tempo per essere solo un operaio? Ecco alcune delle domande che mi faccio. Cerco di farmi forza e dirmi, come probabilmente facevano i miei potenziali colleghi alla mia età, che a me non succederà tutto questo; che mi aspetta un futuro roseo e coperto di glorie.
Faccio l'esame ottico e anche questo va bene. Adesso è la volta dell'esame ortopedico. Entro nello studio, una stanza con le immagini del corpo umano su cui sono scritte le ossa che lo compongono. In fondo, di fronte a me, la scrivania del dottore, a destra un lettino e una bilancia e a sinistra un armadietto con scatole di medicinali, garze e roba che non distinguo. Anche questo medico mi fa alcune domande: "Ha mai avuto delle fratture?" "Si, mi sono rotto 3 volte il braccio destro, una volta il sinistro e il setto nasale." Annota tutto con diligenza, poi mi fa stendere sul lettino e comincia a farmi fare dei movimenti ai piedi, alle ginocchia, alle gambe e, infine, alle spalle. Mentre sono disteso, penso ai mesi di allenamento in palestra, alla box, a come il mio corpo è stato temprato da anni di fatica lavorando in campagna con i 40 gradi e più dell'estate siciliana, servendo ai tavoli e rimanendo in piedi, a camminare, per 15 o 16 ore di fila e vorrei dire al dottore che è inutile farmi fare tutti quei movimenti perché il mio corpo è un'arma da combattimento, ma sto zitto e mi faccio fare tutto.
Le visite sono finite. Saluto tutti ed esco. Ho bisogno di un caffè e di una sigaretta . Mentre sono al bar arrivano due ragazzi che dovrebbero essere assunti con me e iniziamo a parlare. Hanno la mia stessa età, entrambi diplomati all'istituto petrolchimico e con esperienze pregresse di operai precari. Anche loro sono fra quelli che hanno origini siciliane. Il primo è un ragazzo tarchiato, con i capelli nerissimi e la pelle olivastra e i suoi genitori sono di Monreale. Il secondo è un tipo grassoccio, con gli occhiali da secchione, ma la faccia simpatica. Suo padre è di Prizzi. Mentre parliamo, gli dico che io sono laureato in antropologia e rimangono stupiti, mi chiedono se davvero a Palermo non si trova nulla. Rispondo che a Palermo si trova solo quello che altri hanno deciso per te e che il lavoro diventa un eterno obbligo di riconoscenza nei confronti di chi te lo ha concesso. 

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