Nel post precedente ho cercato di concentrare l'attenzione su come il processo produttivo industriale investa e agisca anche e principalmente sui corpi dei lavoratori, partendo dalla mia diretta esperienza. Nel presente post continuo su quella traccia di analisi introducendo i casi etnografici da me riscontrati e approfondendo le riflessioni che vertono sul rapporto corpo/fabbrica. Ciò che tenterò di analizzare è il fatto che i corpi non sono solo i luoghi passivi dell'assoggettamento del processo produttivo neocapitalistico, ma anche i luoghi primari in cui quei processi vengono contrastati attraverso, quelli che in seguito, saranno presentati come atti di micro-resistenza a quei processi.
In
un caldo pomeriggio di luglio, nella fabbrica dove lavoro, è stata indetta una
riunione con tutto il personale dell’azienda. Oggetto della riunione era
informare i lavoratori che un operaio, di cui naturalmente non è stato fornito
il nome per il rispetto della privacy, ha contratto la tubercolosi polmonare. È
stato comunicato, inoltre, che all’interno dello stabilimento è cominciata la
procedura di profilassi e che potrebbero essere eseguiti esami anche ai
colleghi che lavorano a stretto contatto con l’operaio ammalato. Mentre il capo
del personale illustrava la questione, noi tutti ascoltavamo con rispettoso
silenzio. Di fronte a me si trovava un gruppo di operai, quattro o cinque in
totale, tutti fra i trenta e i trentasei anni e con contratti a tempo indeterminato.
I capelli rasati, le barbe lunghe, i fisici palestrati e interamente ricoperti
dai tatuaggi rendevano questo gruppo di operai diverso rispetto a tutto quello
che li circondava. Essi non indossavano mai la tuta da lavoro e le scomode
scarpe antinfortunistiche, bensì abiti sportivi e scarpe da tennis. Mentre noi
tutti, interinali a scadenza, giravamo per lo stabilimento su muletti e commissionatori
con l’ansia di raggiungere la soglia minima di produzione (150 linee da
prelevare), era possibile vedere questi ragazzi stare placidamente seduti sui
loro carrelli, al centro della piazza delle spedizioni, e chiacchierare per
interi quarti d’ora e più. Guardandoli mi venivano spesso in mente i pirati o
le gang di motociclisti duri e con le arie truci dei film americani.
La
questione dell’operaio tubercolotico e la visione di questi lavoratori sui
generis porta al centro della riflessione sulle pratiche lavorative, la questione
del corpo e di come attraverso di esso passano tutte le nostre esperienze e,
allo stesso tempo, di come questo sia il mezzo principale di accesso al mondo e
il simbolo primario di noi stessi all’interno della società e, nel caso qui in
esame, nell’ambito dei contesti di lavoro industriale.
Nel
caso dell’operaio malato, la tubercolosi è il segno che il corpo di quell’uomo è
diventato inabile al lavoro e sostanzialmente inutile ai processi produttivi
formali del neocapitalismo. La tubercolosi, però, può essere trasmessa ai corpi
degli operai che lavorano a stretto contatto con il malato. In questo caso, la
trasmissione diventa anche il segno visibile delle nostre relazioni sociali.
Essa traccia una mappa di quella che gli antropologi hanno definito un network,
cioè una rete di relazioni sociali, più fluide e cangianti delle strutture, che
caratterizzano i rapporti interindivuduali nelle grandi città postmoderne
(Hannerz 1980: 163-201). È anche attraverso il contagio che la mappa delle
relazioni sociali si rende visibile e che è possibile oggettivare chi siamo,
cosa facciamo e a quale comunità apparteniamo.
Nel
caso, invece, degli operai tatuati, entrati in fabbrica poco più che
adolescenti, il corpo, scolpito dalla palestra e disegnato dai tatuaggi, è il
mezzo attraverso cui esprimere la propria diversità. Attraverso le decorazioni
corporali, essi sembrano dire a tutti quelli che li circondano: “Siamo qui
dentro come tutti voi, ma non siamo come voi!”. È profondo il mio sentimento di
empatia, in questo caso, per averlo provato io stesso, sebbene in un grado
infinitamente più basso e transitorio rispetto a loro. Nel mio caso, infatti,
mi è bastato indossare un paio di jeans, invece che la tuta da lavoro perché
sporca, per percepirmi ed essere percepito diverso dai miei colleghi. Mi è
accaduto spesso, infatti, di essere oggetto di battute di spirito da parte
degli altri lavoratori con cui intrattenevo un rapporto confidenziale, i quali
scherzosamente mi dicevano: “Oggi ci siamo vestiti da fighettini!”.
È
anche attraverso questo modo di abitare i corpi, nell’accezione di Pierre
Bourdieu (1972: 259-261), che si può riscontrare uno dei mezzi per fare fronte alla
alienazione e alla omologazione, che con la modificazione del sistema di
produzione da una fase taylorista ad una di flessibilizzazione, ha assunto
caratteri sempre più pervasivi. Come scrive, infatti, Federico Chicchi:
Il farsi rilevante degli aspetti di
prossimità personale nei rapporti organizzativi, l’entrare i gioco dunque del
piano razionale e strategico della produzione di aspetti relazionali e
comunicativi che prima non partecipavano della vita produttiva, pone le basi
per una nuova struttura di definizione del valore del lavoro. Il divenire
rilevanti, sul piano stesso dell’agire strategico e strumentale, di aspetti
intimi della persona, delle sue capacità stesse di governare il suo rapporto
con l’ambiente e con i suoi abitanti più prossimi appare, infatti, oggi sempre
di più un elemento imprescindibile dell’azione di comando sul lavoro. Questo
processo di “approfondimento” verticale del rapporto produttivo sulla persona
definisce quindi e di conseguenza anche una nuova struttura del potere
organizzativo. È il tema che in filosofia politica è stato definito, tramite il
lessico foucaultiano, come il passaggio dal governo alla governamentalità,
intesa quest’ultima come una nuova e pervasiva tecnica di controllo delle
condotte sociali che si differenzia dalle tradizionali azioni di disciplina
gerarchica dell’agire sociale e che si caratterizza, tra l’altro, per il
mettere a valore non solo gli aspetti meramente operativi e professionali del
fare sociale, ma ogni aspetto della vita umana (Chicchi 2008: 118).
È
in tale ottica che il corpo, al di là di una visione che lo vede come mero
oggetto di assoggettamento, si configura come luogo in cui le dinamiche di
potere fra datore di lavoro e lavoratore trovano il loro primo ambito di
negoziazione. Nel corso di questo scritto si prenderanno in esame tre casi in
cui il corpo è centrale nella questione della Fiat di Termini Imerese.
Il
primo caso riguarda la procedura di assunzione in fabbrica che ha il suo incipit
e il suo punto fondamentale nel momento delle visite mediche ai fini
dell’assunzione. In questo caso, le visite, oltre che accertare lo stato di
salute del lavoratore e la sua idoneità a svolgere determinate mansioni, ha
anche lo scopo di fare percepire al lavoratore che il suo corpo, nel momento
dell’assunzione, diventa, per un certo grado, anche di proprietà dell’azienda e
in quanto strumento aziendale deve essere trattato con cura, rispettato e,
soprattutto, preparato ad adattarsi al lavoro.
Il
secondo caso, invece, è volto all’analisi dei processi attraverso cui il corpo
è adattato al lavoro, allo sforzo che il soggetto lavoratore è costretto a
operare per adattarsi ai lavori usuranti e agli incidenti che possono accadere
nel momento in cui tale sforzo supera un certo limite, strettamente soggettivo.
Il
terzo caso, infine, intende indagare la vicenda di un gruppo di operai dello
stabilimento Fiat che, soprattutto in passato, tendevano, attraverso il cibo e
il pasto comunitario all’interno dello stabilimento, a mettere in pratica atti
di micro-resistenza al potere omologante e alienante della fabbrica.
Nei
primi due casi la descrizione, oltre che basata su alcune testimonianze di
operai Fiat attualmente in cassa integrazione, è accompagnata anche da una
esperienza diretta delle vicende legate al corpo nei contesti industriali. Ciò
perché ho ritenuto indispensabile capire fino in fondo e sulla mia pelle alcune
questioni, profondamente intime, legate ad una dimensione la cui esperienza è
difficilmente traducibile in parole. Il terzo caso, invece, è strettamente
legato ad una dimensione peculiare ed è per questo che è basato sulle sole
narrazioni degli operai dello stabilimento Fiat ormai in dismissione. Tuttavia,
anche in questo caso, la mia diretta esperienza del lavoro di fabbrica e dei
tempi e dei ritmi che questo impone, mi ha permesso di valutare come quegli
atti che i soggetti, seppure consapevoli di trasgredire ad alcune regole,
percepivano come normali, assumono i caratteri di una vera e propria
contestazione e di una fortissima affermazione identitaria.
Riferimenti bibliografici
Chicchi F., 2008, Riflessioni
di sintesi: pluralizzazione dei regimi di azione e capitalismo di prossimità in
La Rosa M., Borghi V., Chicchi F. (a cura di), Le grammatiche sociali della
mobilità. Una ricerca sulle condizioni del lavoro nella provincia di Bologna,
Franco Angeli, Milano, pp. 107-121.
Hannerz U., 1980, Exploring the
city. Inquiries towards an urban anthropology, Columbia University Press,
New York.
Bourdieu P., 1972, Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Géneve.
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