Nei post precedenti (La visita medica ovvero l'assoggettamento dei corpi, Corpi in fabbrica. Assoggettamento eresistenza e Corpi in fabbrica. La femminilizzazione del lavoro e lacancellazione dell'identità sessuale), seguendo la prospettiva biopolitica di
Michel Foucault, ho tentato di mostrare le modalità in cui il corpo è preso
all’interno di una serie di dinamiche socio-politiche che tendono ad
assoggettarlo. Tuttavia, sarebbe riduttivo sostenere che il corpo sia solo un
oggetto passivo che è assoggettato dal potere capitalista e neo-capitalista. Il
corpo dell’uomo in società è anche un mezzo attraverso cui esprimere il proprio
dissenso e la propria contestazione[1]
nei confronti di un ordine costituito che si preferirebbe migliorato,
accessibile e sopportabile.
In questo senso, nel contesto
sociale della Fiat di Termini Imerese, mi sembra di avere riscontrato un
esempio emblematico di tale contestazione, che si palesa grazie ad uno degli
atti più naturali e, allo stesso tempo, più culturali che gli uomini praticano
ogni giorno: l'alimentazione.
Diversi autori hanno dimostrato
come alimentarsi non sia funzionale solo ed esclusivamente alla sopravvivenza
biologica degli uomini, ma anche alla produzione simbolica e alla stessa
esistenza della società[2].
Attraverso le pratiche alimentari, gli uomini veicolano quella che, forse un
termine abusato di questi tempi, gli antropologi identificano come l’identità
di un gruppo umano. Questo processo di affermazione identitaria non consiste
soltanto nell’organizzazione di sagre da parte delle istituzioni pubbliche tese
a valorizzare i “prodotti tipici” di qualche remota zona geografica. Esso, a
mio avviso, consiste anche, e forse soprattutto, in un atto politico, un’azione
cioè che tenti di delineare gli elementi peculiari di una comunità, i suoi
orizzonti di valori e i simboli comunitari al fine unificare in un solo corpo
sociale la stessa comunità e di differenziarla da un’altra che si percepisce
diversa e, a volte, lontana e minacciosa.
Nei primi anni della sua
attività, lo stabilimento di Termini Imerese era sprovvisto di una mensa al suo
interno. Il cibo che veniva dato ai suoi dipendenti era cotto e confezionato da
aziende che operavano all’esterno dello stabilimento. Tale cibo, spesso di
scarsa qualità, era poco apprezzato dai lavoratori, i
quali, provenienti nella maggior parte dei casi da un ambiente contadino, tendevano a portare all’interno dello stabilimento i prodotti che loro stessi
avevano coltivato o allevato e che diventavano gli ingredienti di un cibo
preparato e consumato nella pausa pranzo da quegli stessi operai.
Le modalità d’ingresso dei
prodotti e della preparazione del cibo sono, in questo caso, molto
interessanti. Tali ingredienti che, lo ripeto, erano profondamente legati al
sostrato culturale e sociale degli operai, entravano in fabbrica in maniera
clandestina, o presumibilmente tale. La preparazione dei cibi avveniva secondo
modalità complesse, soprattutto se si tiene conto del divieto di cucinare e
portare alimenti dall’esterno e della rigidità con cui erano scandite le pause
durante le giornate lavorative. Questa preparazione, infatti, avveniva con la
collaborazione di tutti quelli che prendevano parte a questo pasto di
contestazione. In pratica succedeva che, l’addetto alla preparazione dei cibi
(generalmente pasta condita con i sughi più vari e succulenti come il cinghiale
o il nero di seppia) si allontanava dalla propria postazione di lavoro e la sua mansione era svolta dagli altri colleghi, i quali dovevano aumentare i ritmi di
lavoro già, invero, abbastanza serrati.
A detta di tutti gli informatori
che hanno preso parte a tali pranzi comunitari, questi avevano lo scopo di
socializzare fra operai, creare una comunità e disertare la mensa aziendale di
scarsa qualità. In quest’ottica, tali cibi diventavano il simbolo di una vera e
propria contestazione nei confronti della fabbrica e un modo per trasformare un
gruppo di individui (i singoli operai) in una comunità (la classe operaia),
creando quella che io indico come una pratica di micro-resistenza al potere
omologante e alienante della dimensione industriale[3].
Naturalmente, con il passare
degli anni e l’apertura della mensa aziendale (la cosiddetta “mensa fresca”), tali
pratiche di contestazione si sono di gran lunghe attenuate, anche se non sono
del tutto scomparse. È tuttavia significativo rilevare come, negli ultimi
giorni di produzione dello stabilimento, la consuetudine di pranzare insieme ai
colleghi disertando la mensa aziendale sia ricomparsa fra gli operai più
giovani e appartenenti a una generazione nettamente diversa da quella in cui
tali pratiche erano usuali. Per questi giovani operai, mangiare insieme voleva
dire riunirsi e riconoscersi negli ultimi giorni di una comunità di lavoratori
che sarebbe esplosa e si sarebbe dislocata in un territorio molto vasto.
Mangiare insieme così ha lasciato il sapore forte di ciò che si è e di ciò che
si è stato prima di affrontare un lungo periodo d’incertezza e precarietà
professionale ed esistenziale.
Attraverso queste poche e
sicuramente non esaustive battute sul cibo in fabbrica, è possibile evincere
come il cibo e le pratiche alimentari abbiano avuto un ruolo importante, veicolato ancora dal corpo, nella pratica di una micro-resistenza volta, nel caso del
passato, al processo di omologazione industriale e, nel caso degli ultimi
giorni di attività, all'affermazione di una presenza collettiva, che si configura come una fase preparatoria a una crisi del
proprio essere-nel-mondo[4]
incombente e, purtroppo, inevitabile
Riferimenti bibliografici
Balandier G.,
1977, Società e dissenso, Dedalo Libri, Bari (ed. or. 1974, Anthopo-logiques,
Presses Universitaires de France, Paris).
Csordas T. J., 1990, Embodiment
as a paradigm for anthropology, in «Ethos», vol. 18, n. 1, pp. 5-47.
De Martino, 1997,
Il mondo magico. Prolegomeni a una storia
del magismo, Bollati Boringhieri, Torino.
D'Onofrio S., 1997, A banchetto con i morti, in Id.,
Le parole delle cose. Simboli e riti sociali in Sicilia, Congedo,
Galatina, pp. 77-99.
Giallombado F.,
2003, La tavola, l'altare, la strada. Scenari del
cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo.
Merleau-Ponty,
M., 2003, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, p. 193 (ed.
or. 1945, Phénoménologie de la Perception, Éditions Gallimard, Paris).
Montanari M., 2004, Il cibo
come cultura, Laterza, Bari-Roma.
Neresini F., Rettore V. (a cura
di), 2008, Cibo, cultura e identità, Carocci, Roma.
Scarpi P., 2005, Il senso
del cibo. Mondo antico e riflessi contemporanei, Sellerio, Palermo.
Scott J. C.,
2006, Il dominio e l'arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la
storia ufficiale, Elèuthera, Milano (ed. or. 1990, Domination and the
arts of resistance. Hidden transcripts, Yale University Press, New Haven).
[1] Utilizzo qui il termine
contestazione nell’accezione di Georges Balandier, secondo cui con questa
parola più che un atto rivoluzionario, e che quindi si pone al di fuori
dell’ordine in vigore in un dato momento, dovrebbe indicare un atto di protesta che non
ha la pretesa di assurgere a pensiero dominante e di sovvertire l’ordine delle
cose (per approfondimenti cfr. Balandier 1977: 246-247).
[2] Cfr., solo a titolo di esempio,
il ciclo di pubblicazioni prodotte da Claude Lévi-Strauss e conosciute con il
titolo di Mithologiques. Solo a titolo di esempio e senza nessuna pretesa di esaustività si vedano seguenti lavori: Montanari (2004), Scarpi
(2005), Neresini e Rettore (2008), Giallombardo (2003) e D'Onofrio (1997:
77-99).
[3] Con il termine “micro-resistenza”
intendo tutte quelle pratiche, eseguite al livello subalterno, episodiche, non
strutturate all'interno di associazioni politico-sindacali e circoscritte a
pochi individui, volte a resistere, negoziare o attenuare le principali istanze
e caratteristiche provenienti dalla classe egemone. Questo termine è vicino,
anche se non totalmente coincidente, a quello che James C. Scott definisce
“verbale segreto”, secondo cui: «Se il discorso del subordinato in presenza del
dominante è un verbale pubblico, userò il termine verbale segreto per
indicare il discorso che ha luogo “dietro le quinte”, fuori dall'osservazione
diretta di chi detiene il potere. Il verbale segreto è così una derivazione,
nel senso che è costituito da quei discorsi, gesti, pratiche fuori scena che
confermano, oppure contraddicono, o semplicemente modificano, ciò che appare
nel verbale pubblico» (Scott, 2006: 17-18. Corsivi dell'autore). Ciò che
distingue la nozione di micro-resistenza da quella di verbale segreto sono
principalmente i contesti di riferimento estremi (schiavitù, regimi
dittatoriali, ecc.) cui fa ricorso James Scott per spiegare e dimostrare
l'esistenza del verbale segreto. È innegabile tuttavia che le pratiche di micro-resistenza fanno parte di quella che lo stesso Scott ha
definito come infrapolitica, cioè: «… quella grande varietà di resistenze di
basso profilo che non osano dichiararsi apertamente. Cogliere la sostanza di
questa infrapolitica, le sue mascherature, le sue finzioni, e il suo rapporto
con il verbale pubblico, può aiutarci a chiarire diversi spinosi problemi
dell'analisi politica» (Ibid.: 36).
[4] Per quanto riguarda la nozione di
essere-nel-mondo e la questione della presenza collettiva e comunitaria è
doveroso rinviare qui al testo di Ernesto de Martino (1997). Per la stessa
nozione di essere-nel-mondo, con particolare riferimento alla questione del
corpo e della percezione di questo, cfr. Merleau-Ponty (2003: 193) e, per un
taglio decisamente più antropologico, Csordas (1990: 5-47).
Nessun commento:
Posta un commento