Racconti dal mondo precario

sabato 24 agosto 2013

Corpi in fabbrica. Cibo e micro-resistenza (III parte)

Nei post precedenti (La visita medica ovvero l'assoggettamento dei corpi, Corpi in fabbrica. Assoggettamento eresistenza e Corpi in fabbrica. La femminilizzazione del lavoro e lacancellazione dell'identità sessuale), seguendo la prospettiva biopolitica di Michel Foucault, ho tentato di mostrare le modalità in cui il corpo è preso all’interno di una serie di dinamiche socio-politiche che tendono ad assoggettarlo. Tuttavia, sarebbe riduttivo sostenere che il corpo sia solo un oggetto passivo che è assoggettato dal potere capitalista e neo-capitalista. Il corpo dell’uomo in società è anche un mezzo attraverso cui esprimere il proprio dissenso e la propria contestazione[1] nei confronti di un ordine costituito che si preferirebbe migliorato, accessibile e sopportabile.
In questo senso, nel contesto sociale della Fiat di Termini Imerese, mi sembra di avere riscontrato un esempio emblematico di tale contestazione, che si palesa grazie ad uno degli atti più naturali e, allo stesso tempo, più culturali che gli uomini praticano ogni giorno: l'alimentazione.
Diversi autori hanno dimostrato come alimentarsi non sia funzionale solo ed esclusivamente alla sopravvivenza biologica degli uomini, ma anche alla produzione simbolica e alla stessa esistenza della società[2]. Attraverso le pratiche alimentari, gli uomini veicolano quella che, forse un termine abusato di questi tempi, gli antropologi identificano come l’identità di un gruppo umano. Questo processo di affermazione identitaria non consiste soltanto nell’organizzazione di sagre da parte delle istituzioni pubbliche tese a valorizzare i “prodotti tipici” di qualche remota zona geografica. Esso, a mio avviso, consiste anche, e forse soprattutto, in un atto politico, un’azione cioè che tenti di delineare gli elementi peculiari di una comunità, i suoi orizzonti di valori e i simboli comunitari al fine unificare in un solo corpo sociale la stessa comunità e di differenziarla da un’altra che si percepisce diversa e, a volte, lontana e minacciosa.
Nei primi anni della sua attività, lo stabilimento di Termini Imerese era sprovvisto di una mensa al suo interno. Il cibo che veniva dato ai suoi dipendenti era cotto e confezionato da aziende che operavano all’esterno dello stabilimento. Tale cibo, spesso di scarsa qualità, era poco apprezzato dai lavoratori, i quali, provenienti nella maggior parte dei casi da un ambiente contadino, tendevano a portare all’interno dello stabilimento i prodotti che loro stessi avevano coltivato o allevato e che diventavano gli ingredienti di un cibo preparato e consumato nella pausa pranzo da quegli stessi operai.
Le modalità d’ingresso dei prodotti e della preparazione del cibo sono, in questo caso, molto interessanti. Tali ingredienti che, lo ripeto, erano profondamente legati al sostrato culturale e sociale degli operai, entravano in fabbrica in maniera clandestina, o presumibilmente tale. La preparazione dei cibi avveniva secondo modalità complesse, soprattutto se si tiene conto del divieto di cucinare e portare alimenti dall’esterno e della rigidità con cui erano scandite le pause durante le giornate lavorative. Questa preparazione, infatti, avveniva con la collaborazione di tutti quelli che prendevano parte a questo pasto di contestazione. In pratica succedeva che, l’addetto alla preparazione dei cibi (generalmente pasta condita con i sughi più vari e succulenti come il cinghiale o il nero di seppia) si allontanava dalla propria postazione di lavoro e la sua mansione era svolta dagli altri colleghi, i quali dovevano aumentare i ritmi di lavoro già, invero, abbastanza serrati.
A detta di tutti gli informatori che hanno preso parte a tali pranzi comunitari, questi avevano lo scopo di socializzare fra operai, creare una comunità e disertare la mensa aziendale di scarsa qualità. In quest’ottica, tali cibi diventavano il simbolo di una vera e propria contestazione nei confronti della fabbrica e un modo per trasformare un gruppo di individui (i singoli operai) in una comunità (la classe operaia), creando quella che io indico come una pratica di micro-resistenza al potere omologante e alienante della dimensione industriale[3].
Naturalmente, con il passare degli anni e l’apertura della mensa aziendale (la cosiddetta “mensa fresca”), tali pratiche di contestazione si sono di gran lunghe attenuate, anche se non sono del tutto scomparse. È tuttavia significativo rilevare come, negli ultimi giorni di produzione dello stabilimento, la consuetudine di pranzare insieme ai colleghi disertando la mensa aziendale sia ricomparsa fra gli operai più giovani e appartenenti a una generazione nettamente diversa da quella in cui tali pratiche erano usuali. Per questi giovani operai, mangiare insieme voleva dire riunirsi e riconoscersi negli ultimi giorni di una comunità di lavoratori che sarebbe esplosa e si sarebbe dislocata in un territorio molto vasto. Mangiare insieme così ha lasciato il sapore forte di ciò che si è e di ciò che si è stato prima di affrontare un lungo periodo d’incertezza e precarietà professionale ed esistenziale.
Attraverso queste poche e sicuramente non esaustive battute sul cibo in fabbrica, è possibile evincere come il cibo e le pratiche alimentari abbiano avuto un ruolo importante, veicolato ancora dal corpo, nella pratica di una micro-resistenza volta, nel caso del passato, al processo di omologazione industriale e, nel caso degli ultimi giorni di attività, all'affermazione di una presenza collettiva, che si configura come una fase preparatoria a una crisi del proprio essere-nel-mondo[4] incombente e, purtroppo, inevitabile

Riferimenti bibliografici
Balandier G., 1977, Società e dissenso, Dedalo Libri, Bari (ed. or. 1974, Anthopo-logiques, Presses Universitaires de France, Paris).
Csordas T. J., 1990, Embodiment as a paradigm for anthropology, in «Ethos», vol. 18, n. 1, pp. 5-47.
De Martino, 1997, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino.
D'Onofrio S., 1997, A banchetto con i morti, in Id., Le parole delle cose. Simboli e riti sociali in Sicilia, Congedo, Galatina, pp. 77-99.
Giallombado F., 2003, La tavola, l'altare, la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo.
Merleau-Ponty, M., 2003, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, p. 193 (ed. or. 1945, Phénoménologie de la Perception, Éditions Gallimard, Paris).
Montanari M., 2004, Il cibo come cultura, Laterza, Bari-Roma.
Neresini F., Rettore V. (a cura di), 2008, Cibo, cultura e identità, Carocci, Roma.
Scarpi P., 2005, Il senso del cibo. Mondo antico e riflessi contemporanei, Sellerio, Palermo.
Scott J. C., 2006, Il dominio e l'arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, Elèuthera, Milano (ed. or. 1990, Domination and the arts of resistance. Hidden transcripts, Yale University Press, New Haven).






[1] Utilizzo qui il termine contestazione nell’accezione di Georges Balandier, secondo cui con questa parola più che un atto rivoluzionario, e che quindi si pone al di fuori dell’ordine in vigore in un dato momento, dovrebbe indicare un atto di protesta che non ha la pretesa di assurgere a pensiero dominante e di sovvertire l’ordine delle cose (per approfondimenti cfr. Balandier 1977: 246-247).
[2] Cfr., solo a titolo di esempio, il ciclo di pubblicazioni prodotte da Claude Lévi-Strauss e conosciute con il titolo di Mithologiques. Solo a titolo di esempio e senza nessuna pretesa di esaustività si vedano seguenti lavori: Montanari (2004), Scarpi (2005), Neresini e Rettore (2008), Giallombardo (2003) e D'Onofrio (1997: 77-99).
[3] Con il termine “micro-resistenza” intendo tutte quelle pratiche, eseguite al livello subalterno, episodiche, non strutturate all'interno di associazioni politico-sindacali e circoscritte a pochi individui, volte a resistere, negoziare o attenuare le principali istanze e caratteristiche provenienti dalla classe egemone. Questo termine è vicino, anche se non totalmente coincidente, a quello che James C. Scott definisce “verbale segreto”, secondo cui: «Se il discorso del subordinato in presenza del dominante è un verbale pubblico, userò il termine verbale segreto per indicare il discorso che ha luogo “dietro le quinte”, fuori dall'osservazione diretta di chi detiene il potere. Il verbale segreto è così una derivazione, nel senso che è costituito da quei discorsi, gesti, pratiche fuori scena che confermano, oppure contraddicono, o semplicemente modificano, ciò che appare nel verbale pubblico» (Scott, 2006: 17-18. Corsivi dell'autore). Ciò che distingue la nozione di micro-resistenza da quella di verbale segreto sono principalmente i contesti di riferimento estremi (schiavitù, regimi dittatoriali, ecc.) cui fa ricorso James Scott per spiegare e dimostrare l'esistenza del verbale segreto. È innegabile tuttavia che le pratiche di micro-resistenza fanno parte di quella che lo stesso Scott ha definito come infrapolitica, cioè: «… quella grande varietà di resistenze di basso profilo che non osano dichiararsi apertamente. Cogliere la sostanza di questa infrapolitica, le sue mascherature, le sue finzioni, e il suo rapporto con il verbale pubblico, può aiutarci a chiarire diversi spinosi problemi dell'analisi politica» (Ibid.: 36).
[4] Per quanto riguarda la nozione di essere-nel-mondo e la questione della presenza collettiva e comunitaria è doveroso rinviare qui al testo di Ernesto de Martino (1997). Per la stessa nozione di essere-nel-mondo, con particolare riferimento alla questione del corpo e della percezione di questo, cfr. Merleau-Ponty (2003: 193) e, per un taglio decisamente più antropologico, Csordas (1990: 5-47).

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