Lo scorso 5 aprile, intorno alle 9,00 del mattino, il mio telefono
squillò. Michele, dall’altro capo del telefono, flemmatico e pacato come
sempre, mi fece alcune di quelle domande che di consueto si fanno fra ottimi
conoscenti e a un certo punto mi chiese dove mi trovavo. Risposi che ero a casa
a riposarmi da non ricordo più quale mia impresa donchisciottesca. A quel
punto, Michele m’informò che era in atto una manifestazione improvvisata degli
operai Fiat di Termini Imerese. Gli chiesi dove si trovassero in quel momento e
che strada stavano facendo e l’uomo dall’altro capo del telefono mi rispose che
stavano per partire da piazza Castelnuovo e che l’obiettivo era raggiungere
piazza Indipendenza, dove si affaccia la sede della Presidenza della Regione Siciliana,
ma che tuttavia l’itinerario era segreto. Raggiunsi i manifestanti quanto
prima, intercettandoli sulla via Amerigo Amari, davanti a una stazione della
Guardia di Finanza e qui trovai Michele ad attendermi. Mi spiegò che la
manifestazione era stata organizzata in segreto, tramite sms scambiati fra i
sindacalisti organizzatori, i colleghi e gli impiegati. L’unica cosa che era
detta in quegli sms era di farsi trovare per la mattina del 5 aprile alle 8,00
in piazza Sant’Antonio a Termini Imerese. Qui i manifestanti avrebbero trovato
dei pullman ad attenderli per portarli a Palermo. Michele m’informò, inoltre,
che, già al momento della partenza, gli animi dei lavoratori erano caldi e la
tensione sfociò in episodi di violenza fra alcuni operai. Tale agitazione era
dovuta essenzialmente a due motivi: il decreto legislativo firmato a dicembre
2012 che permetteva due anni di cassa integrazione e la mobilità per 640
operai, che con la vecchia legge pensionistica avevano il diritto alla
pensione; e, in conseguenza di questo decreto, il drastico calo dei
partecipanti alle manifestazioni inerenti alla vertenza Fiat di Termini
Imerese. Questa profonda spaccatura del fronte operaio è stata vissuta come una
specie di tradimento da parte di tutti quei lavoratori che, non avendo i
requisiti minimi per una pensione alla fine del 2013 saranno definitivamente
licenziati dall’azienda torinese.
Mentre Michele ed io parliamo di questi fatti, il corteo si rimette
in marcia. Via Cavour, dove si trova una sede della Banca d’Italia, è il nostro
primo passaggio. Qui un gruppetto di operai si stacca dal corteo e si avvicina
al portone d’ingresso, dove un carabiniere, con la faccia scocciata e quasi
implorante, tenta di dissuadere i manifestanti mentre alcuni impiegati della
banca sprangano il portone d’ingresso. Il carabiniere fa più volte di no con la
testa e poi uno dei manifestanti, voltandosi verso il corteo, urla: “Picciotti amuninni ca picciuli pi nuatri un
ci n’è!”[1]
Il corteo riparte e la prossima tappa è il Teatro Massimo. Qui sulla
scalinata del famoso monumento ci si dispone tutti per la fotografia di gruppo.
Come una scolaresca in gita, diversi operai mi chiedono di scattargli una
fotografia un po’ per una sorta di narcisistica velleità e un po’ perché
vogliono testimoniare la loro partecipazione a un momento importante per la
vertenza.
Ci rimettiamo in marcia su via Maqueda fino al Palazzo delle Aquile,
sede dell’ufficio del sindaco di Palermo, dove un assordante boato di fischi e
urla rende tutto molto confusionario e caotico. Anche qui c’è chi si fa
fotografare con striscioni davanti alla cintura di poliziotti che ostruiscono
l’ingresso del Comune.
Poi di nuovo via Maqueda, fino a Palazzo Comitini, sede della
Provincia di Palermo, e altro coro di fischi e urla e di nuovo in marcia fino
alla stazione centrale e poi su Corso Tukory, in direzione di Palazzo
d’Orleans. Qui intravedo in mezzo alla folla Francesco e mi avvicino. Mi chiede
come sto e bonariamente mi accusa di farmi “sempre i cazzi degli altri”.
Iniziamo a parlare di quegli altri e della situazione della vertenza che si
trova sostanzialmente a un fase di stallo. Il primo dicembre 2011, infatti, i
sindacati, organizzazione di cui fa parte anche Francesco, avevano firmato un
accordo con l’azienda, alla presenza dell’allora ministro del lavoro e del
ministro allo sviluppo economico. In tale accordo si prevedeva, fra le altre
cose, anche l’ingresso nel sito di Termini Imerese, di DR Motor, azienda italiana
che assembla autoveicoli e che fa capo a Massimo di Risio. Questa azienda,
individuata dall’agenzia governativa per lo sviluppo del Mezzogiorno,
Invitalia, in seguito dimostrò l’impossibilità di far partire gli investimenti
per rilevare il sito termitano a causa di una grave mancanza di liquidità. Già
in sede di contrattazione, al momento della firma dell’accordo del primo
dicembre 2011, i sindacati avevano mostrato perplessità per l’ingresso di
questo nuovo investitore. Tuttavia, tale perplessità fu lasciata da parte in
nome del fatto che, senza un’alternativa imprenditoriale alla Fiat, non sarebbero
partiti gli incentivi per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e
mobilità). In sostanza, come mi disse Francesco durante la manifestazione: “Se a
Termini non possiamo fare una fabbrica di automobili, almeno possiamo fare una
fabbrica di cassaintegrati.”
Ma che cosa è questa cassa integrazione?[2] Come si
configura, al livello antropologico, questo sostegno ai lavoratori nel momento
in cui si protrae per un tempo medio-lungo?
Secondo Hannah Arendt la condizione umana si fonda su tre pilastri: il lavoro, l’opera e l’azione. Secondo l’autrice:
L'attività lavorativa corrisponde
allo sviluppo biologico del corpo umano il cui accrescimento spontaneo,
metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte,
alimentate nel processo vitale della stessa attività lavorativa. La condizione
umana di quest'ultima è la vita stessa.
L'operare è l'attività che
corrisponde alla dimensione non-naturale dell'esistenza umana, che non è
assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve,
non è compensata da esso. Il frutto dell'operare è un mondo
"artificiale" di cose, nettamente distinto dall'ambiente naturale.
Entro questo mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato
stesso dell'operare sta nel superare e trascendere tali limiti. La condizione
umana dell'operare è l'essere-nel-mondo.
L'azione, la sola attività che metta
in rapporto gli uomini senza mediazione di cose materiali, corrisponde alla
condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l'Uomo, vivono
sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra
esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è
specificatamente "la" condizione - non solo la conditio sine qua non , ma la conditio per quam - di ogni
vita politica[3].
Ciò significa che, per l’autrice, il lavoro si configura come un processo mirato a soddisfare le necessità degli uomini ed è soggetto alla trasformazione dei tempi e, soprattutto, all’usura dello scorrere della vita. L’operare, pur essendo una forma particolare di lavoro, tende invece a creare un prodotto definitivo che, per la sue caratteristiche di finitizza e immutabilità, tenta di sottrarre all’usura del tempo i prodotti dell’uomo dando a quest’ultimo la percezione, se vogliamo illusoria, dell’eternità e dell’immortalità (l’esempio classico e magistrale di un tale prodotto sono le opere d’arte). Infine l’azione è un’immersione nelle cose del mondo che mette gli uomini in relazione fra loro senza nessuna mediazione da parte dei costrutti materiali, come avviene nel caso del lavoro e dell’opera, nell’estremo tentativo di assoggettare, in qualche modo, quello scorrere del tempo che usura le esistenze.
Se si guarda alla condizione di cassaintegrati seguendo la speculazione di Arendt ci si accorge di quanto la cassa integrazione, lo ripeto, protratta per un tempo abbastanza lungo, provochi un mutamento profondo alla condizione umana. I cassaintegrati qui presi in considerazione, infatti, sono persone che, pur percependo un salario (anche minimo e limitato nel tempo) non esercitano alcun lavoro, non prendono parte a nessun processo produttivo. Si aggiunga a ciò che, nella maggior parte dei casi, essi non svolgono nessun altro lavoro non perché non ne abbiano le capacità o i mezzi, bensì per due ragioni fondamentali: la sospensione della cassa integrazione nel momento in cui dovessero svolgere un lavoro; il venir meno di un senso della propria attività. In quest’ultimo caso, infatti, ho registrato la mancanza di una motivazione forte che spinga quegli uomini a creare opere, a rimettersi in gioco perché, secondo loro, comunque essi non hanno nessuna speranza di sottrarsi alla loro condizione liminoide di cassaintegrati o esodati. In questo modo, in quello che rimane della comunità operaia di Termini Imerese, viene meno anche la necessità di creare delle opere che rimangano perché troppo presi dalla loro condizione di assoggettamento alle necessità della vita e del suo scorrere.
L’ultimo baluardo cui possono aggrapparsi è l’azione politica. In questo senso, la manifestazione del 5 aprile rappresenta un mezzo attraverso cui ri-creare una comunità. Non c’è nessuna catarsi in questo corteo, nessuna purificazione né liberazione. C’è la ricerca di risposte, la volontà di creare un senso e, in definitiva come nei riti di ribellione analizzati da Max Gluckman, la necessità di aggrapparsi a un ordine sociale. L’unico che noi, padri e madri di famiglia, cassaintegrati, precari ed esodati, noi tutti presi in questo scorrere inarrestabile della vita, in questa terrificante condizione di esseri-nel-mondo riusciamo a concepire.
[1] “Ragazzi, andiamocene
perché soldi per noi non ce ne sono!”
[2] Tengo subito a chiarire il
fatto che non metto in discussione in alcun modo l’utilità e l’importanza di un
simile ammortizzatore sociale, soprattutto per la sopravvivenza dei lavoratori
che fanno parte di aziende in difficoltà economiche.
[3] Arendt, 1991, Vita activa. La condizione umana,
Bompiani, Milano: 45
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