Racconti dal mondo precario

lunedì 21 ottobre 2013

Per un'antropologia dei corpi a riposo. Note di campo.


Torino 4/10/2013
    Sono rientrato giorno 1 dopo 17 giorni di “vacanza” in Sicilia. Sono rientrato cominciando a lavorare nel primo turno (6-14). Ciò significa sveglia alle 4,30 , colazione, quindici o venti minuti di di auto. Poi lavoro senza interruzioni, senza una sola parola scambiata o da scambiare con chi ti circonda perché siete tutti troppo addormentati. Pausa di dieci minuti con un caffè e una sigaretta consumati così velocemente e avidamente da sembrare gli ultimi della tua vita. Riprendi il lavoro. Solo e in silenzio per due ore e mezzo, fino alla pausa pranzo, che dura quaranta minuti.
    Quando finisce questa pausa ti senti quasi salvo, pensi che sei arrivato alla fine della tua giornata e che te ne potrai tornare a casa e riprendere la tua vita: gli ultimi ottanta minuti di lavoro e sei fuori. A volte, però, ti chiedono di fare due ore di straordinario e allora la storia si complica, devi respirare a fondo, devi stare calmo per arrivare alla fine di 10 ore di lavoro con dignità.
   Dopo quattro giorni di questa vita sono tornato a casa e quello che doveva essere un riposino pomeridiano si è trasformato in un sonno profondo durato più di due ore. La stanchezza era così forte che il mio sonno, che generalmente paragonerei a una condizione di a-presenza in cui scivolo piano, oggi è stato un tonfo nell'incoscienza piena: un pesante buco nero che non riesco ancora a togliermi di dosso.
    Bisognerebbe riflettere più spesso oltre che sui corpi a lavoro anche sui corpi a riposo dal lavoro per avere una visione chiara e, quanto più possibile, olistica della questione del lavoro e del corpo in antropologia. Le trasformazioni del corpo al di fuori del lavoro, infatti, sono il simbolo di come l'attività lavorativa stessa modifichi le nostre vite a di versi livelli. Nel mio caso, la stanchezza esagerata provocata dal lavoro mi ha portato a dormire una quantità di tempo per me estremamente inusuale. Ciò ha inciso direttamente sul mio fisico facendo insorgere un fastidioso mal di testa, che ha condizionato diversi piani della mia vita: innanzitutto quello sociale e relazionale e poi anche il piano esistenziale. Nel primo caso, avendo dormito troppo ho dovuto annullare un appuntamento. Nel secondo caso, non ho studiato e questo, quando mi capita per una mia mancanza o per il venire meno di una parte di quella disciplina rigida che mi auto-impongo per riuscire a lavorare e studiare, mi innervosisce e fa insorgere in me una specie di senso di colpa per le pagine che non ho letto o scritto, per avere messo in secondo piano un obiettivo fondamentale della mia vita (lo studio).
    Cosa succede, mi chiedo, quando una stanchezza così plumbea, grigia e pesante come questo cielo dell'ottobre torinese si impossessa, per un lasso di tempo lungo e indefinito, di intere comunità, di migliaia di persone costrette a lavorare a ritmi pensanti e a fare dei lavori logoranti per almeno quaranta anni della loro vita (gli anni necessari alla pensione)? È possibile rispondere che si creano milioni di persone, intere società colme di una stanchezza atavica, profonda, radicata come un istinto di sopravvivenza terribile? È possibile rispondere che l'unico obiettivo di tutte quelle comunità di uomini sia arrivare a fine giornata, addormentarsi e sprofondare nell'oblio di un sonno imperituro e incosciente?

2 commenti:

  1. Grazie per questo articolo. Lo ritengo un'importante testimonianza perchè non è frequente che coloro che affrontano quotidianamente spossanti ore di lavori pesanti e/o ripetitivi utilizzino lo strumento della scrittura per analizzarne o documentarne gli effetti. Non è neppure frequente che possano condividere l'esperienza della spossatezza fisica e psicologica con altri, in poche parole che abbiano uno spazio più o meno strutturato per darne una narrazione. Questo articolo dà in parte voce a una moltitudine silenziosa.

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  2. Grazie a te per le belle parole. Sono contento che ti sia piaciuto. L'intento di questo blog è esattamente quello che tu hai individuato, cioè creare uno spazio di riflessione intorno alle dinamiche lavorative concentrandosi principalmente intorno alla questione della precarietà. Quest'ultima è stata analizzata, spesso anche da importanti studiosi, come qualcosa di isolato, qualcosa che riguarda solo alcune persone. Ritengo, invece, che per capire fino in fondo, i cambiamenti, a mio avviso epocali, che stiamo vivendo, è neccessario cercare di ragionare in termini sociali e rendere conto di una situazione tutt'altro che frammentaria e limitata ad alcune soggettività. Il solo mezzo che possiedo per fare questo è la scrittura. Grazie ancora.

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