Per dare
un senso alla malattia gli uomini hanno da sempre dovuto attribuirgli
delle cause, siano esse biomediche, sovrannaturali o simboliche.
Nel 2009
mi trovavo in Tanzania, nel villaggio di Nzihi, presso la popolazione
dei Wahehe. Lì indagavo, nell'ambito del mio percorso di studi
universitari, i modi di discretizzare e curare la malattia
dell'Hiv/Aids. Fra le cose che più di tutte mi colpirono durante le
indagini sul campo fu che ogni attore sociale da me intervistato dava
una sua peculiare lettura dell'insorgere e della diffusione del virus
in quella regione. Le posizioni che emersero, tuttavia, possono
essere riassunte essenzialmente in due grandi tesi: da una parte vi
erano coloro che, rifacendosi ad uno stile di vita che per
semplificare dirò tradizionale, sostenevano che il virus era
comparso a seguito delle grandi migrazioni dei giovani del villaggio
che, per trovare fortuna, erano andati a vivere nelle grandi città
della costa (Dar es Salam, Bagamoyo o, in alcuni casi l'isola di
Zanzibar). Dall'altra parte vi erano coloro che, forti di un bagaglio
culturale acquisito in alcuni anni di studio o di vita proprio nelle
grandi città, sostenevano che la colpa della diffusione era dovuto
allo stile di vita tradizionale e, in particolar modo, dall'istituto
matrimoniale hehe.
Nel primo
caso, l'insorgere del virus era dovuto al fatto che i giovani,
allontanandosi dal proprio villaggio, erano venuti meno a tutta una
serie di prescrizioni culturali che stavano alla base della società
hehe stessa come, per esempio, la cura degli antenati e, soprattutto
le relazioni coniugali intrattenute in quelle città senza il
consenso dell'intera famiglia e quindi al di fuori di un preciso
corpus di norme che regolavano lo scambio e la distribuzione della
ricchezza e delle donne fra clan della società hehe e fra questa e
il mondo degli antenati. Ciò aveva provocato, secondo molti, uno
squilibrio cosmico che minacciava la stessa esistenza della società.
Il virus, in quest'ottica, rappresentava la prova della trasgressione
di quelle leggi basilari.
Secondo i
sostenitori della seconda tesi, invece, istituti matrimoniali
peculiari della società hehe, come la poligamia e il levirato,
residui, per molti, di un passato vecchio, superato e viziato da
ignoranza, erano la causa della grande diffusione della malattia
nella regione di Iringa1.
Gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime secondo
l'opinione comune, sieropositivi avevano contratto il virus durante
relazioni extra-coniugali. Il virus, in seguito, sarebbe stato
trasmesso al partner che lo avrebbe trasmesso alle altre mogli (nel
caso dell'uomo) e ai figli (nel caso delle donne). In questo caso il
virus era la macchia indelebile, minacciosa e infamante per un intero
gruppo familiare.
Ciò che
accomunava le due tesi, tuttavia, era che la malattia era il frutto
di una trasgressione, di una violazione dell'ordine sociale che, in
definitiva, minacciava la convivenza e la reciprocità fra gli
uomini.
Recentemente,
in un contesto totalemente differente, mi sono nuovamente imbattuto
nella concezione della malattia come colpa da sanzionare.
Qualche
giorno fa, un'importante multinazionale di logistica ha proposto ai
suoi operai italiani un accordo: il premio di produzione annuale, che
ammonta a circa 162 euro per ogni singolo operaio dello stabilimento,
sarebbe stato corrisposto solo a quei lavoratori che avrebbero
usufruito dei giorni di mutua al di sotto di una certa soglia. I
sindacati, avendo ascoltato la proposta, hanno ad un certo punto
chiesto a quanti giorni di malattia avrebbero dovuto rinunciare gli
operai che volevano avere il loro premio di produzione. A tale
richiesta l'azienda ha risposto che se i sindacati avessero voluto
conoscere i dettagli, dovevano prima firmare l'accordo. Preso atto
della decisione aziendale di celare i termini precisi dell'accordo
fino a che lo stesso non fosse stato accettato dai lavoratori, i
sindacati hanno indetto un referendum che ha sancito un esito
positivo a favore dell'azienda (aventi diritto al voto 460
dipendenti, votanti 417, rispote affermative 371). A distanza di una
settimana dal voto, tuttavia, non si conoscono i termini precisi
dell'accordo e, però, bisogna chiedersi cosa cambierà in seguito a
questo accordo?
Il diritto
“alla mutua” è sancito come uno dei fondamenti della
legislazione in materia di lavoro vigente in Italia. Tuttavia, chi ne
usufruisce in abbondanza, per ragioni reali o meno, è spesso
additato di essere un dipendente con scarso senso del dovere nei
confronti della propria azienda e, negli ultimi anni, di essere anche
un ingrato nei confronti della stessa e di coloro che non hanno un
lavoro in ragione della situazione di disoccupazione o
sotto-occupazione generale. In altre parole chi oggi usufruisce della
malattia, a ragione o a torto, è considerato come uno scansafatiche,
un ingrato, un profittatore. Con il referendum proposto dalla
multinazionale, a mio avviso, si fa un ulteriore passo in avanti
verso la considerazione del dipendente malato come elemento
simbolicamente negativo. La malattia, in questa ottica, è sancita
definitivamente e chiaramente come un comportamento deviante e
usufruire dei giorni di mutua, oltre una non meglio specificata
soglia, è la dichiarazione ufficiale di inadeguatezza al lavoro, di
una colpa che va punita con il solo mezzo che oggi conta: il denaro,
o meglio, la negazione del denaro. La malattia è una colpa che, se
reiterata, può dichiarare un dipendente improduttivo, inutile, un
peso per l'azienda e, se tale malattia si diffonde, per la stessa
esistenza dell'azienda. Essa diventa così una minaccia latente per
l'intera comunità di lavoratori.
La lettura
dello stato di malato, in questo particolare contesto lavorativo, si
trasforma da diritto dei lavoratori a dispositivo di divisione e
governo della comunità dei lavoratori che, presi in una continua
lotta fra poveri, potranno identificare nel loro compagno, veramente
o falsamente, malato un potenziale motivo di minaccia del proprio
lavoro, un sicuro concorrente profittatore che vorrebbe accedere ad
un incentivo che in fondo non lo riguarda e, infine, ad un simbolico
untore di un intero stabilimento, che troverà un altro escamotage
per minacciare chiusura ad ogni piè sospinto.
È la
malattia del nostro vicino e, non sia mai, la nostra stessa malattia
a renderci precari? Una malattia che abbiamo la necessità, sempre,
comunque e dovunque, in Tanzania come in Italia, come in qualunque
altro posto, di vedere come una colpa, come uno stato di una evidente
trasgressione? Sono quelle 162 euro di premio di produzione negato a
sancire il nostro stato patologico?
Se è così
siamo davvero un paese malato per cui la cura è ancora di là da
venire.
1La
regione di cui fa parte il villaggio di Nzihi.
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