Sono arrivato nel magazzino siciliano in una calda mattina di luglio. Attorno al capannone di circa 5000 m2 soltanto
campagna brulla, sterpi e qualche pecora arginata da recinti acconciati
con vecchie reti di letti e qualche metro di filo spinato. Tutto
somigliava ben poco a quello che si potrebbe definire un polo
industriale sviluppato. Il mio compito qui
era quello di supportare e integrare la manodopera locale, quest’ultima
composta da quindici operai, nel trasferimento del magazzino di
componenti elettrici dalla zona di Capaci (Pa) a quella di Catania. Continua a leggere
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sabato 1 novembre 2014
venerdì 25 aprile 2014
La retorica della crisi, l'emergenza e la nuda vita
Studiosi
quali Hannah Arendt e Michel Foucault hanno dimostrato, secondo linee
interpretative diverse ma convergenti, che il fondamento dei
movimenti totalitari e capitalistici sia quello di esercitare un
pervasivo governo delle vite degli individui e delle comunità
attraverso le scelte politiche e, sopratutto, le imposizioni
economiche. In questo senso, la nozione di biopolitica di Foucault è
funzionale a identificare e circoscrivere quello stretto legame fra
individui, politica e liberismo. Tale nozione è ripresa in un
importante saggio di Giorgio Agamben Homo sacer. Il potere sovrano
e la nuda vita. Centrale nella
trattazione di Agamben è, oltre il riferimento costante alla
biopolitica foucaultiana, la nozione di sacerità, ripresa dal
diritto romano. Per il filosofo italiano, l'homo sacer «è
colui che è stato escluso dal mondo degli uomini e che, pur non
potendo essere sacrificato, è lecito uccidere senza commettere
omicidio»1.
L'homo sacer, nel sistema filosofico agambiano, rappresenta colui che
è identificato come stato di eccezione all'interno di una comunità
e che è necessario alla sovranità per fondare ed esercitare il suo
potere. L'homo sacer è colui che, essendo ai limiti della società
e rappresentando egli stesso l'emergenza, è pervaso dalla nuda vita:
una esistenza su cui la sovranità può tutto. L'esempio principale
riportato da Agamben nel suo saggio è quello degli ebrei, durante il
Terzo Reich, su cui la sovranità hitleriana si esercitò attraverso
il potere di definire gli ebrei come il nemico pubblico per
eccellenza, l'emergenza del momento da debellare e su cui il diritto
di vita o morte si esercitò non direttamente da Hitler, ma bensì da
tutti coloro che facevano a pieno diritto parte della razza ariana.
Quello
degli ebrei, però, rappresenta un caso limite ed eclatante. Gli
effetti della biopolitica e degli eterni stati di eccezione ed
emergenza sono molto meno visibili e tuttavia altrettanto violenti.
Negli
ultimi anni, infatti, tutti noi abbiamo assistito ad un vero e
proprio bombardamento retorico sulla crisi economica in atto e sulle
misure di emergenza che continuamente i vari Stati, soprattutto
europei, hanno dovuto varare. Fra le varie misure da adottare per
fare fronte all'emergenza economica, vi è stata, oltre l'aumento
inaudito della pressione fiscale, una continua insistenza sulla
necessità di flessibilizzare il lavoro, di rinunciare a qualche
diritto e a un po' di retribuzione per mantenere un impiego. In
questo senso, la Riforma Fornero e il Jobs Act proposto da Matteo
Renzi sono
soltanto gli ultimi esiti di una retorica violenta e pressante che
sta tentando, e forse ci è già riuscita, di fare diventare quelle
misure di emergenza una pratica che rientra nella normalità. In
questo contesto, la sacerità di cui parla Agamben si applica
perfettamente a quella comunità di persone fra i 18 e i 39 anni,
appartenenti alle classi medio-basse, che possono essere sacrificate
in nome di un rilancio economico che, forse si potrebbe cominciare a
sospettare, non dipende dalla flessibilità del mercato del lavoro,
ma dalla mancanza di una politica industriale e professionale in
questo Paese.
Sul giornale il
Manifesto
del 10 aprile 2014 Giorgio Airaudo apre il suo articolo elencando una
serie di vertenze iniziate in questi giorni: quella della Agrati di
Torino, della Micron e della Neslte di Perugia. Tutte aziende a
rischio chiusura e con una minaccia continua di delocalizzazione non
in Cina, Malesia o chissà in quale Paese dalle condizione lavorative
schiaviste, ma in Francia o Germania. Inoltre, in almeno due dei tre
casi a cui qui si fa riferimento, si tratta di aziende con bilanci in
attivo, floride e non attraversate da una crisi delle commesse.
Questi casi e molti altri, come sostiene Airaudo, ci dicono che il
problema non è la crisi economica in Italia, ma le condizioni in cui
le aziende lavorano e, soprattutto, la solitudine dei lavoratori
italiani ad affrontare quelle crisi.
Un
Paese piegato alle logiche neo-liberiste europee e mondiali, che
opera in una condizione di perenne emergenza facendo passare ogni
singola negazione di diritto come un atto dovuto da chissà quale
entità trascendente è un Paese che ha ceduto la sua sovranità a
banche e imprese, le quali non sono degli enti nati per il bene
comune, ma per la tutela e l'arricchimento di pochi. Il bene comune,
in un mondo ideale, dovrebbe essere tutelato dai Governi e,
soprattutto, dal governo attuale che si pretende per i giovani e di
sinistra.
In
questo quadro, ciò che è successo il
12
aprile 2014 a Roma: le manifestazione dei precari, dei senza casa e
degli attivisti a vario titolo; gli scontri con la polizia; la rabbia
furibonda e ceca non sono
altro che l'estremo tentativo da parte di questa generazione di
ragazzi, cresciuta sotto l'egida costante di
mille emergenze quotidiane (casa,
lavoro, grandi opere ecc.), di non essere definitivamente trattata
come nuda vita su cui tutto è possibile. Una generazione il cui
timore è quello di essere definita sacra dalla retorica politica
contemporanea così da potere essere sacrificata senza che nessuno
sia un assassino.
1Agamben
G., 1990, La comunità che viene, Bollati Boringhieri,
Torino, p.59.
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lunedì 10 febbraio 2014
Deindustrializzazione e mitopoiesi. Lo spazio della fabbrica dismessa
Abstract
La chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese ha rappresentato un evento tragico che ha coinvolto migliaia di persone. Tuttavia, tale evento ha creato le condizioni per cui diversi attori sociali (cittadini e istituzioni) hanno cominciato a operare un processo immaginario volto alla rimodulazione e alla risemantizzazione dello spazio della fabbrica dismessa. Attraverso un’attenta analisi etnografica dell’istallazione e della chiusura dello stabilimento, l’articolo tenta di ricostruire le basi di questo processo mitopoietico.
The closure of Fiat’s plant of Termini Imerese is a tragic event that involved thousands of people. However, this event created a situation in which different social agents (citizens and institutions) started an imaginary process aimed to re-modulate and give a new meaning to the space of the closed factory. Through a strong ethnographic analysis of the process of installation and closure of the plant, this article attempts to reconstruct the base of this mythopoeia.
La chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese ha rappresentato un evento tragico che ha coinvolto migliaia di persone. Tuttavia, tale evento ha creato le condizioni per cui diversi attori sociali (cittadini e istituzioni) hanno cominciato a operare un processo immaginario volto alla rimodulazione e alla risemantizzazione dello spazio della fabbrica dismessa. Attraverso un’attenta analisi etnografica dell’istallazione e della chiusura dello stabilimento, l’articolo tenta di ricostruire le basi di questo processo mitopoietico.
The closure of Fiat’s plant of Termini Imerese is a tragic event that involved thousands of people. However, this event created a situation in which different social agents (citizens and institutions) started an imaginary process aimed to re-modulate and give a new meaning to the space of the closed factory. Through a strong ethnographic analysis of the process of installation and closure of the plant, this article attempts to reconstruct the base of this mythopoeia.
deindustrializzazione | spazio | fiat | Termini Imerese | mitopoiesi
deindustrialization | space | fiat | Termini Imerese | mithopoeia.
deindustrialization | space | fiat | Termini Imerese | mithopoeia.
domenica 8 dicembre 2013
La colpa della malattia
Per dare
un senso alla malattia gli uomini hanno da sempre dovuto attribuirgli
delle cause, siano esse biomediche, sovrannaturali o simboliche.
Nel 2009
mi trovavo in Tanzania, nel villaggio di Nzihi, presso la popolazione
dei Wahehe. Lì indagavo, nell'ambito del mio percorso di studi
universitari, i modi di discretizzare e curare la malattia
dell'Hiv/Aids. Fra le cose che più di tutte mi colpirono durante le
indagini sul campo fu che ogni attore sociale da me intervistato dava
una sua peculiare lettura dell'insorgere e della diffusione del virus
in quella regione. Le posizioni che emersero, tuttavia, possono
essere riassunte essenzialmente in due grandi tesi: da una parte vi
erano coloro che, rifacendosi ad uno stile di vita che per
semplificare dirò tradizionale, sostenevano che il virus era
comparso a seguito delle grandi migrazioni dei giovani del villaggio
che, per trovare fortuna, erano andati a vivere nelle grandi città
della costa (Dar es Salam, Bagamoyo o, in alcuni casi l'isola di
Zanzibar). Dall'altra parte vi erano coloro che, forti di un bagaglio
culturale acquisito in alcuni anni di studio o di vita proprio nelle
grandi città, sostenevano che la colpa della diffusione era dovuto
allo stile di vita tradizionale e, in particolar modo, dall'istituto
matrimoniale hehe.
Nel primo
caso, l'insorgere del virus era dovuto al fatto che i giovani,
allontanandosi dal proprio villaggio, erano venuti meno a tutta una
serie di prescrizioni culturali che stavano alla base della società
hehe stessa come, per esempio, la cura degli antenati e, soprattutto
le relazioni coniugali intrattenute in quelle città senza il
consenso dell'intera famiglia e quindi al di fuori di un preciso
corpus di norme che regolavano lo scambio e la distribuzione della
ricchezza e delle donne fra clan della società hehe e fra questa e
il mondo degli antenati. Ciò aveva provocato, secondo molti, uno
squilibrio cosmico che minacciava la stessa esistenza della società.
Il virus, in quest'ottica, rappresentava la prova della trasgressione
di quelle leggi basilari.
Secondo i
sostenitori della seconda tesi, invece, istituti matrimoniali
peculiari della società hehe, come la poligamia e il levirato,
residui, per molti, di un passato vecchio, superato e viziato da
ignoranza, erano la causa della grande diffusione della malattia
nella regione di Iringa1.
Gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime secondo
l'opinione comune, sieropositivi avevano contratto il virus durante
relazioni extra-coniugali. Il virus, in seguito, sarebbe stato
trasmesso al partner che lo avrebbe trasmesso alle altre mogli (nel
caso dell'uomo) e ai figli (nel caso delle donne). In questo caso il
virus era la macchia indelebile, minacciosa e infamante per un intero
gruppo familiare.
Ciò che
accomunava le due tesi, tuttavia, era che la malattia era il frutto
di una trasgressione, di una violazione dell'ordine sociale che, in
definitiva, minacciava la convivenza e la reciprocità fra gli
uomini.
Recentemente,
in un contesto totalemente differente, mi sono nuovamente imbattuto
nella concezione della malattia come colpa da sanzionare.
Qualche
giorno fa, un'importante multinazionale di logistica ha proposto ai
suoi operai italiani un accordo: il premio di produzione annuale, che
ammonta a circa 162 euro per ogni singolo operaio dello stabilimento,
sarebbe stato corrisposto solo a quei lavoratori che avrebbero
usufruito dei giorni di mutua al di sotto di una certa soglia. I
sindacati, avendo ascoltato la proposta, hanno ad un certo punto
chiesto a quanti giorni di malattia avrebbero dovuto rinunciare gli
operai che volevano avere il loro premio di produzione. A tale
richiesta l'azienda ha risposto che se i sindacati avessero voluto
conoscere i dettagli, dovevano prima firmare l'accordo. Preso atto
della decisione aziendale di celare i termini precisi dell'accordo
fino a che lo stesso non fosse stato accettato dai lavoratori, i
sindacati hanno indetto un referendum che ha sancito un esito
positivo a favore dell'azienda (aventi diritto al voto 460
dipendenti, votanti 417, rispote affermative 371). A distanza di una
settimana dal voto, tuttavia, non si conoscono i termini precisi
dell'accordo e, però, bisogna chiedersi cosa cambierà in seguito a
questo accordo?
Il diritto
“alla mutua” è sancito come uno dei fondamenti della
legislazione in materia di lavoro vigente in Italia. Tuttavia, chi ne
usufruisce in abbondanza, per ragioni reali o meno, è spesso
additato di essere un dipendente con scarso senso del dovere nei
confronti della propria azienda e, negli ultimi anni, di essere anche
un ingrato nei confronti della stessa e di coloro che non hanno un
lavoro in ragione della situazione di disoccupazione o
sotto-occupazione generale. In altre parole chi oggi usufruisce della
malattia, a ragione o a torto, è considerato come uno scansafatiche,
un ingrato, un profittatore. Con il referendum proposto dalla
multinazionale, a mio avviso, si fa un ulteriore passo in avanti
verso la considerazione del dipendente malato come elemento
simbolicamente negativo. La malattia, in questa ottica, è sancita
definitivamente e chiaramente come un comportamento deviante e
usufruire dei giorni di mutua, oltre una non meglio specificata
soglia, è la dichiarazione ufficiale di inadeguatezza al lavoro, di
una colpa che va punita con il solo mezzo che oggi conta: il denaro,
o meglio, la negazione del denaro. La malattia è una colpa che, se
reiterata, può dichiarare un dipendente improduttivo, inutile, un
peso per l'azienda e, se tale malattia si diffonde, per la stessa
esistenza dell'azienda. Essa diventa così una minaccia latente per
l'intera comunità di lavoratori.
La lettura
dello stato di malato, in questo particolare contesto lavorativo, si
trasforma da diritto dei lavoratori a dispositivo di divisione e
governo della comunità dei lavoratori che, presi in una continua
lotta fra poveri, potranno identificare nel loro compagno, veramente
o falsamente, malato un potenziale motivo di minaccia del proprio
lavoro, un sicuro concorrente profittatore che vorrebbe accedere ad
un incentivo che in fondo non lo riguarda e, infine, ad un simbolico
untore di un intero stabilimento, che troverà un altro escamotage
per minacciare chiusura ad ogni piè sospinto.
È la
malattia del nostro vicino e, non sia mai, la nostra stessa malattia
a renderci precari? Una malattia che abbiamo la necessità, sempre,
comunque e dovunque, in Tanzania come in Italia, come in qualunque
altro posto, di vedere come una colpa, come uno stato di una evidente
trasgressione? Sono quelle 162 euro di premio di produzione negato a
sancire il nostro stato patologico?
Se è così
siamo davvero un paese malato per cui la cura è ancora di là da
venire.
1La
regione di cui fa parte il villaggio di Nzihi.
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