Racconti dal mondo precario

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venerdì 25 aprile 2014

La retorica della crisi, l'emergenza e la nuda vita

Studiosi quali Hannah Arendt e Michel Foucault hanno dimostrato, secondo linee interpretative diverse ma convergenti, che il fondamento dei movimenti totalitari e capitalistici sia quello di esercitare un pervasivo governo delle vite degli individui e delle comunità attraverso le scelte politiche e, sopratutto, le imposizioni economiche. In questo senso, la nozione di biopolitica di Foucault è funzionale a identificare e circoscrivere quello stretto legame fra individui, politica e liberismo. Tale nozione è ripresa in un importante saggio di Giorgio Agamben Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Centrale nella trattazione di Agamben è, oltre il riferimento costante alla biopolitica foucaultiana, la nozione di sacerità, ripresa dal diritto romano. Per il filosofo italiano, l'homo sacer «è colui che è stato escluso dal mondo degli uomini e che, pur non potendo essere sacrificato, è lecito uccidere senza commettere omicidio»1. L'homo sacer, nel sistema filosofico agambiano, rappresenta colui che è identificato come stato di eccezione all'interno di una comunità e che è necessario alla sovranità per fondare ed esercitare il suo potere. L'homo sacer è colui che, essendo ai limiti della società e rappresentando egli stesso l'emergenza, è pervaso dalla nuda vita: una esistenza su cui la sovranità può tutto. L'esempio principale riportato da Agamben nel suo saggio è quello degli ebrei, durante il Terzo Reich, su cui la sovranità hitleriana si esercitò attraverso il potere di definire gli ebrei come il nemico pubblico per eccellenza, l'emergenza del momento da debellare e su cui il diritto di vita o morte si esercitò non direttamente da Hitler, ma bensì da tutti coloro che facevano a pieno diritto parte della razza ariana.
Quello degli ebrei, però, rappresenta un caso limite ed eclatante. Gli effetti della biopolitica e degli eterni stati di eccezione ed emergenza sono molto meno visibili e tuttavia altrettanto violenti.
Negli ultimi anni, infatti, tutti noi abbiamo assistito ad un vero e proprio bombardamento retorico sulla crisi economica in atto e sulle misure di emergenza che continuamente i vari Stati, soprattutto europei, hanno dovuto varare. Fra le varie misure da adottare per fare fronte all'emergenza economica, vi è stata, oltre l'aumento inaudito della pressione fiscale, una continua insistenza sulla necessità di flessibilizzare il lavoro, di rinunciare a qualche diritto e a un po' di retribuzione per mantenere un impiego. In questo senso, la Riforma Fornero e il Jobs Act proposto da Matteo Renzi sono soltanto gli ultimi esiti di una retorica violenta e pressante che sta tentando, e forse ci è già riuscita, di fare diventare quelle misure di emergenza una pratica che rientra nella normalità. In questo contesto, la sacerità di cui parla Agamben si applica perfettamente a quella comunità di persone fra i 18 e i 39 anni, appartenenti alle classi medio-basse, che possono essere sacrificate in nome di un rilancio economico che, forse si potrebbe cominciare a sospettare, non dipende dalla flessibilità del mercato del lavoro, ma dalla mancanza di una politica industriale e professionale in questo Paese.
Sul giornale il Manifesto del 10 aprile 2014 Giorgio Airaudo apre il suo articolo elencando una serie di vertenze iniziate in questi giorni: quella della Agrati di Torino, della Micron e della Neslte di Perugia. Tutte aziende a rischio chiusura e con una minaccia continua di delocalizzazione non in Cina, Malesia o chissà in quale Paese dalle condizione lavorative schiaviste, ma in Francia o Germania. Inoltre, in almeno due dei tre casi a cui qui si fa riferimento, si tratta di aziende con bilanci in attivo, floride e non attraversate da una crisi delle commesse. Questi casi e molti altri, come sostiene Airaudo, ci dicono che il problema non è la crisi economica in Italia, ma le condizioni in cui le aziende lavorano e, soprattutto, la solitudine dei lavoratori italiani ad affrontare quelle crisi.
Un Paese piegato alle logiche neo-liberiste europee e mondiali, che opera in una condizione di perenne emergenza facendo passare ogni singola negazione di diritto come un atto dovuto da chissà quale entità trascendente è un Paese che ha ceduto la sua sovranità a banche e imprese, le quali non sono degli enti nati per il bene comune, ma per la tutela e l'arricchimento di pochi. Il bene comune, in un mondo ideale, dovrebbe essere tutelato dai Governi e, soprattutto, dal governo attuale che si pretende per i giovani e di sinistra.
In questo quadro, ciò che è successo il 12 aprile 2014 a Roma: le manifestazione dei precari, dei senza casa e degli attivisti a vario titolo; gli scontri con la polizia; la rabbia furibonda e ceca non sono altro che l'estremo tentativo da parte di questa generazione di ragazzi, cresciuta sotto l'egida costante di mille emergenze quotidiane (casa, lavoro, grandi opere ecc.), di non essere definitivamente trattata come nuda vita su cui tutto è possibile. Una generazione il cui timore è quello di essere definita sacra dalla retorica politica contemporanea così da potere essere sacrificata senza che nessuno sia un assassino.

1Agamben G., 1990, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino, p.59.

lunedì 10 febbraio 2014

Deindustrializzazione e mitopoiesi. Lo spazio della fabbrica dismessa

Abstract
La chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese ha rappresentato un evento tragico che ha coinvolto migliaia di persone. Tuttavia, tale evento ha creato le condizioni per cui diversi attori sociali (cittadini e istituzioni) hanno cominciato a operare un processo immaginario volto alla rimodulazione e alla risemantizzazione dello spazio della fabbrica dismessa. Attraverso un’attenta analisi etnografica dell’istallazione e della chiusura dello stabilimento, l’articolo tenta di ricostruire le basi di questo processo mitopoietico.

The closure of Fiat’s plant of Termini Imerese is a tragic event that involved thousands of people. However, this event created a situation in which different social agents (citizens and institutions) started an imaginary process aimed to re-modulate and give a new meaning to the space of the closed factory. Through a strong ethnographic analysis of the process of installation and closure of the plant, this article attempts to reconstruct the base of this mythopoeia.

deindustrializzazione | spazio | fiat | Termini Imerese | mitopoiesi
deindustrialization | space | fiat | Termini Imerese | mithopoeia.

domenica 8 dicembre 2013

La colpa della malattia


Per dare un senso alla malattia gli uomini hanno da sempre dovuto attribuirgli delle cause, siano esse biomediche, sovrannaturali o simboliche.
Nel 2009 mi trovavo in Tanzania, nel villaggio di Nzihi, presso la popolazione dei Wahehe. Lì indagavo, nell'ambito del mio percorso di studi universitari, i modi di discretizzare e curare la malattia dell'Hiv/Aids. Fra le cose che più di tutte mi colpirono durante le indagini sul campo fu che ogni attore sociale da me intervistato dava una sua peculiare lettura dell'insorgere e della diffusione del virus in quella regione. Le posizioni che emersero, tuttavia, possono essere riassunte essenzialmente in due grandi tesi: da una parte vi erano coloro che, rifacendosi ad uno stile di vita che per semplificare dirò tradizionale, sostenevano che il virus era comparso a seguito delle grandi migrazioni dei giovani del villaggio che, per trovare fortuna, erano andati a vivere nelle grandi città della costa (Dar es Salam, Bagamoyo o, in alcuni casi l'isola di Zanzibar). Dall'altra parte vi erano coloro che, forti di un bagaglio culturale acquisito in alcuni anni di studio o di vita proprio nelle grandi città, sostenevano che la colpa della diffusione era dovuto allo stile di vita tradizionale e, in particolar modo, dall'istituto matrimoniale hehe.
Nel primo caso, l'insorgere del virus era dovuto al fatto che i giovani, allontanandosi dal proprio villaggio, erano venuti meno a tutta una serie di prescrizioni culturali che stavano alla base della società hehe stessa come, per esempio, la cura degli antenati e, soprattutto le relazioni coniugali intrattenute in quelle città senza il consenso dell'intera famiglia e quindi al di fuori di un preciso corpus di norme che regolavano lo scambio e la distribuzione della ricchezza e delle donne fra clan della società hehe e fra questa e il mondo degli antenati. Ciò aveva provocato, secondo molti, uno squilibrio cosmico che minacciava la stessa esistenza della società. Il virus, in quest'ottica, rappresentava la prova della trasgressione di quelle leggi basilari.
Secondo i sostenitori della seconda tesi, invece, istituti matrimoniali peculiari della società hehe, come la poligamia e il levirato, residui, per molti, di un passato vecchio, superato e viziato da ignoranza, erano la causa della grande diffusione della malattia nella regione di Iringa1. Gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime secondo l'opinione comune, sieropositivi avevano contratto il virus durante relazioni extra-coniugali. Il virus, in seguito, sarebbe stato trasmesso al partner che lo avrebbe trasmesso alle altre mogli (nel caso dell'uomo) e ai figli (nel caso delle donne). In questo caso il virus era la macchia indelebile, minacciosa e infamante per un intero gruppo familiare.
Ciò che accomunava le due tesi, tuttavia, era che la malattia era il frutto di una trasgressione, di una violazione dell'ordine sociale che, in definitiva, minacciava la convivenza e la reciprocità fra gli uomini.
Recentemente, in un contesto totalemente differente, mi sono nuovamente imbattuto nella concezione della malattia come colpa da sanzionare.
Qualche giorno fa, un'importante multinazionale di logistica ha proposto ai suoi operai italiani un accordo: il premio di produzione annuale, che ammonta a circa 162 euro per ogni singolo operaio dello stabilimento, sarebbe stato corrisposto solo a quei lavoratori che avrebbero usufruito dei giorni di mutua al di sotto di una certa soglia. I sindacati, avendo ascoltato la proposta, hanno ad un certo punto chiesto a quanti giorni di malattia avrebbero dovuto rinunciare gli operai che volevano avere il loro premio di produzione. A tale richiesta l'azienda ha risposto che se i sindacati avessero voluto conoscere i dettagli, dovevano prima firmare l'accordo. Preso atto della decisione aziendale di celare i termini precisi dell'accordo fino a che lo stesso non fosse stato accettato dai lavoratori, i sindacati hanno indetto un referendum che ha sancito un esito positivo a favore dell'azienda (aventi diritto al voto 460 dipendenti, votanti 417, rispote affermative 371). A distanza di una settimana dal voto, tuttavia, non si conoscono i termini precisi dell'accordo e, però, bisogna chiedersi cosa cambierà in seguito a questo accordo?
Il diritto “alla mutua” è sancito come uno dei fondamenti della legislazione in materia di lavoro vigente in Italia. Tuttavia, chi ne usufruisce in abbondanza, per ragioni reali o meno, è spesso additato di essere un dipendente con scarso senso del dovere nei confronti della propria azienda e, negli ultimi anni, di essere anche un ingrato nei confronti della stessa e di coloro che non hanno un lavoro in ragione della situazione di disoccupazione o sotto-occupazione generale. In altre parole chi oggi usufruisce della malattia, a ragione o a torto, è considerato come uno scansafatiche, un ingrato, un profittatore. Con il referendum proposto dalla multinazionale, a mio avviso, si fa un ulteriore passo in avanti verso la considerazione del dipendente malato come elemento simbolicamente negativo. La malattia, in questa ottica, è sancita definitivamente e chiaramente come un comportamento deviante e usufruire dei giorni di mutua, oltre una non meglio specificata soglia, è la dichiarazione ufficiale di inadeguatezza al lavoro, di una colpa che va punita con il solo mezzo che oggi conta: il denaro, o meglio, la negazione del denaro. La malattia è una colpa che, se reiterata, può dichiarare un dipendente improduttivo, inutile, un peso per l'azienda e, se tale malattia si diffonde, per la stessa esistenza dell'azienda. Essa diventa così una minaccia latente per l'intera comunità di lavoratori.
La lettura dello stato di malato, in questo particolare contesto lavorativo, si trasforma da diritto dei lavoratori a dispositivo di divisione e governo della comunità dei lavoratori che, presi in una continua lotta fra poveri, potranno identificare nel loro compagno, veramente o falsamente, malato un potenziale motivo di minaccia del proprio lavoro, un sicuro concorrente profittatore che vorrebbe accedere ad un incentivo che in fondo non lo riguarda e, infine, ad un simbolico untore di un intero stabilimento, che troverà un altro escamotage per minacciare chiusura ad ogni piè sospinto.
È la malattia del nostro vicino e, non sia mai, la nostra stessa malattia a renderci precari? Una malattia che abbiamo la necessità, sempre, comunque e dovunque, in Tanzania come in Italia, come in qualunque altro posto, di vedere come una colpa, come uno stato di una evidente trasgressione? Sono quelle 162 euro di premio di produzione negato a sancire il nostro stato patologico?
Se è così siamo davvero un paese malato per cui la cura è ancora di là da venire.
1La regione di cui fa parte il villaggio di Nzihi.