Spesso, nei post
precedenti, ho utilizzato il termine deindustrializzazione. Credo,
adesso, che sia arrivato il momento di chiarire cosa intendo con tale
termine e il valore che esso può avere all’interno degli studi di
antropologia.
La parola
deindustrializzazione è entrata nel linguaggio comune abbastanza
recentemente e si è diffusa nel periodo dell’attuale crisi
economica. Ciò, tuttavia, non significa che i processi di chiusura
delle fabbriche e la crisi del settore manifatturiero siano apparsi
nella storia del mondo altrettanto recentemente o partire dal 2009
né, tantomeno, che gli antropologi non si siano mai occupati di
indagare quelle realtà che da una fase di espansione e di sviluppo
industriale si sono trasformate in altro.
Uno dei primi testi
a trattare degli effetti sociali della chiusura di alcune realtà di
tipo industriale è quello dato alle stampe da Jahoda, Lazarsfeld e
Zeisel (2002 [I ed. 1933]). Il testo tratta delle condizioni
socio-economiche ed esistenziali di alcuni disoccupati nella città
di Marienthal, a seguito della chiusura delle miniere e delle
fabbriche locali determinata dalla crisi economica del 1929. Il
testo, che per alcuni anni è circolato in forma anonima per
permettere ai suoi autori di sfuggire alla repressione nazista, è
ormai considerato un classico delle scienze sociali. In esso gli
autori, analizzano i disoccupati di lunga durata della cittadina
austriaca partendo da valutazioni di tipo sociologico (quante volte a
settimana i disoccupati riescono ad avere un pasto completo, i tipi
di vestiti posseduti e il loro stato, le abitudini intellettuali
ecc.). Tuttavia, questo saggio acquista un valore importante per gli
studi dell’antropologia contemporanea, grazie all’analisi di
alcuni elementi quali la concezione e la percezione dello scorrere
del tempo dei disoccupati locali e il verificarsi di un certo numero
di trasformazioni nelle dinamiche di potere fra generi.
Un altro testo
fondamentale nella questione della deindustrializzazione, nell’ambito
degli studi di scienze sociali, è Expectations of Modernity:
Myths and Meanings of Urban Life on the Zambian Copperbelt (1999)
di James Ferguson. In questo testo, l’antropologo americano,
attraverso l’analisi della vicenda di tredici ex-minatori, analizza
i processi di deindustrializzazione e del ritorno a un’economia di
sussistenza basata principalmente sull’agricoltura. Ferguson è
forse il primo a notare, nell’ambito degli studi di scienze
sociali, il fatto che se da un lato la globalizzazione economica e,
solo in un secondo momento culturale, ha messo in connessione paesi
anche molto lontani fra loro. Tale processo ha anche prodotto, come
afferma lo stesso Ferguson, tutta una serie di disconnessioni di
altre zone geografiche che, con l’apertura di nuovi mercati e di
nuovi flussi economici, hanno perso la loro importanza politica ed
economica provocando tutta una serie di profonde trasformazioni
socio-culturali.
Un altro testo che,
sebbene affronti la questione della disoccupazione, tratta il tema
della deindustrializzazione in maniera collaterale, è il testo di
Leo Howe, Being unemployed in Northern Ireland. An ethnographic
study (1990). Qui l’autore affronta la questione della
disoccupazione e delle strategie per fare fronte a questa condizione
nelle comunità cattoliche e protestanti dei suburbi di Belfast. Il
testo è molto interessante per le modalità di ricerca dell’autore,
il quale frequenta sia le due comunità religiose sia gli uffici
delle agenzie per il lavoro. In questa situazione ciò che emerge, in
estrema sintesi, è come per la prima volta lo stato di
disoccupazione sia analizzato, grazie al rapporto con gli
informatori, non come semplicemente una condizione economica, ma come
una questione simbolica correlata sia al proprio sostrato sociale,
sia alla percezione e all’etica del lavoro derivante dalle due
confessioni religiose cui fanno riferimento gli informatori.
Infine un altro
testo interessante è A view from Federal Hill (2001:
246-249), dove per la prima volta, attraverso la vicenda della città
di Baltimora, la deindustrializzazione e la conseguente
finanziarizzazione dell’economia locale sono trattate non come un
caso isolato, bensì come un processo caratteristico di tutti quei
paesi che presentano un avanzato stato d’industrializzazione1.
Tali testi
dimostrano come la deindustrializzazione, presente, almeno nella
storia dell’Occidente, già dai primi del Novecento, abbia assunto
gradualmente i caratteri di un processo strutturale che, tuttavia, si
è reso pienamente visibile solo con l’esplodere della crisi
economica attuale2.
La deindustrializzazione rappresenta, quindi, un profondo mutamento
che si ripercuote sulla struttura sociale e sulle pratiche
comunitarie e simboliche.
L’immediato
risultato di tale mutamento è, al livello sociale, l’insorgere di
uno stato di precarietà che logora le tradizionali pratiche sociali,
politiche, economiche ed esistenziali che fino a qualche anno fa si
ritenevano fondamentali della nostra società3.
Luciano Gallino, che
di flessibilizzazione e di precarietà si è occupato in diversi
testi, scrive:
Il tratto che
accomuna gran parte dei lavoratori flessibili è appunto il loro
essere precari, predicato che – a rigor di dizionario – riassume
due cose. Anzitutto l’essere in varia guisa, codesti lavori, e da
diversi punti di vista, insicuri, temporanei soggetti a revoca, senza
garanzia di durata, fugaci. In secondo luogo, come dice bene l’etimo
del termine “precario”, sono lavori che bisogna pregare per
ottenere […]. Il senso della precarietà dell’occupazione, la
consapevolezza che, per quanto bene uno svolga il proprio lavoro, la
durata e la qualità della sua occupazione non ne saranno quasi mai
positivamente influenzate, più l’umiliazione di dover pregare
qualcuno per continuare a lavorare, rientrano tra gli oneri che gli
addetti a lavori flessibili collocano non solo tra i più pesanti ma
pure tra i più sgradevoli (Gallino, 2012: 126-127).
Se questa
rappresenta un’immagine di massima degli attuali precari italiani,
soprattutto nell’ambito di una progressiva deindustrializzazione e
di una terziarizzazione dell’economia sempre più avanzata, è Guy
Standing che fornisce una definizione dell’attuale classe precaria:
Quel che manca ai
precari, oltre la sicurezza lavorativa e il reddito sociale, è
l'identità professionale. Quando vengono assunti, occupano posti che
non danno prospettive di carriera, per cui non vi è una tradizione o
una memoria condivisa e non si prova la sensazione di appartenere a
una comunità occupazionale inquadrata in pratiche consolidate, con
codici e norme di comportamento e rapporti di reciprocità e
fraternità. Il lavoratore precario non si sente integrato in una
collettività lavorativa solidale. Ciò accresce il senso di
alienazione e strumentalizzazione nell'assolvimento del proprio
compito. [...] Al precariato manca una identità professionale,
sebbene alcuni una qualifica ce l'abbiano, mentre altri rispondono a
titoli alla moda e improbabili (Standing 2012: 29-30).
Alla luce di quanto
appena detto, quindi la questione della deindustrializzazione e delle
sue implicazioni sociali, prima di tutto quella del precariato,
rappresentano una delle sfide che la contemporaneità lancia
all’antropologia. Compito di questa, a mio avviso, deve essere
cogliere quella sfida e analizzare realmente e tenacemente le
mutazioni, le dinamiche e i conflitti che un tale stato precario,
deindustrializzato pone alla scienza antropologica al fine di
contribuire a un’analisi e a una comprensione di tali dinamiche che
esuli da interpretazioni di comodo o capziose.
Riferimenti
bibliografici
Ferguson
J., 1999, Expectations of Modernity: Myths and Meanings of Urban
Life on the Zambian Copperbelt, University of California Press,
Berkeley-Calif.
Gallino
L. 2012, La lotta di classe dopo la
lotta di classe, Laterza, Roma-Bari.
Harvey
D., 2001, A view from Federal Hill,
in id. Spaces
of capital. Towards a critical geography,
Routledge, New York, pp. 246-249.
Howe
L., 1990, Being unemployed in Northern
Ireland. An ethnographic study,
Cambridge University Press, New York.
Jahoda
M., Lazarsfeld P. F., Zeisel H., 2002, Marienthal. The Sociography
o fan Unemployed Community, Tranzaction Publishers, New
Bruswick-London (ed. or. 1933, Die Arbeitslosen von Marienthal.
Ein soziographischer Versuch über die Wirkungen langandauernder
Arbeitslosigkeit, Hirzel, Leipzig).
Standing
G., 2012, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna (ed.
or. 2011, The Precariat: The new dangerous class, Bloomsbury
Academic, London-New York).
1La
presente rassegna di testi non ha nessuna pretesa di esaustività.
Solo per fare qualche esempio, rimangono fuori da tale rassegna
testi del calibro di Made
in Sheffield.
An
ethnography of industrial work and politics
(2009)
Massimiliano
Mollona e Industrial
work and life. An
Anthropological reader
(2009) curato dallo stesso Mollona, De Neeve e Parry. Questi testi,
tuttavia, unitamente a quelli in precedenza citati rappresentano dei
punti di partenza da cui è possibile estrapolare le principali
tematiche riguardanti la deindustrializzazione attuale.
2A
supporto di tale ipotesi è possibile citare le elaborazioni
dell’agenzia giornalistica Adnkronos sui dati Istat. Secondo tale
agenzia, negli ultimi dieci anni (2002-2012) la produzione
industriale italiana è calata del 17,8%. Cfr.
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Produzione-industriale-in-caduta-libera--178-negli-ultimi-dieci-anni_32462252936.html
3Il
processo di precarietà e di precarizzazione dei lavoratori italiani
risulta evidente dai dati Istat sull’andamento del mondo del
lavoro. Come rileva, infatti, il Rapporto Istat 2013:
«Nell’industria in senso stretto, la riduzione dell’occupazione
complessiva è stata relativamente marcata sia in termini di forze
di lavoro (-1,8 per cento), sia in termini di Ula (-1,9 per cento).
[…]La diminuzione dell’occupazione totale ha coinvolto sia gli
occupati dipendenti (-0,2 per cento la variazione media del 2012),
sia gli indipendenti (-0,7 per cento) (Tavola 1.10). Tra i
dipendenti, a fronte di una caduta degli occupati a tempo
indeterminato (-0,7 per cento) si è verificata una crescita degli
occupati a termine (3,1 per cento); inoltre, alla riduzione
dell’occupazione dipendente a tempo pieno (-2,1 per cento), ha
corrisposto l’aumento di quella a tempo parziale (4,1 per cento)»
(Istat, 2013: 37-38).
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