Racconti dal mondo precario

sabato 7 settembre 2013

Processi di deindustrializzazione a confronto: il caso delle OGR e della Fiat di Termini Imerese

La gente è in fila davanti ai cancelli. Degli uomini con le giacche giallo-fosforescenti controllano le borse di chi entra per assicurarsi che all’interno non ci siano bottiglie di liquori. Alcune ragazze, anche queste con le giacche giallo-fosforescenti, sono ferme accanto a scatole con una fessura sulla parte superiore e chiedono una piccola offerta. Francesco M. ed io, due operai precari, senza memoria e con un futuro perso in un vago quanto impacciato “vedremo”, varchiamo i cancelli e davanti a noi si apre un grande cortile con ghiaia rossa e, proprio al centro, una passerella bianca e nera, che attraversa il cortile in tutta la sua lunghezza. A destra quello che fu il reparto Fonderie e Fucine: uno spazio immenso a tre navate su cui è installato un palco e, a sinistra di questo, angoli ristoro dove è possibile comprare panini e birre a buon mercato. Passiamo oltre. Di fronte a noi adesso si apre una specie di hall con stand in cui è possibile acquistare t-shirt, libri, cd musicali. A sinistra della hall uno spazio diviso da mura bianche su cui sono appesi quadri di arte contemporanea e, alla fine delle mura, un altro palco. A sinistra un’altra grande ala, la sala delle macchine, dove si trovano foto di cantanti famosi e in fondo al salone, un cantante, in carne e ossa, si presta all’occhio scrutatore del fotografo: appostato contro il muro, assume posizioni innaturali e sembra, in fondo, voler sfuggire a quella fucilazione digitale. Ecco cosa sono oggi le Officine Grandi Riparazioni. Uno spazio restituito alla città di Torino. Uno spazio che, in qualche modo, ha creato una buona parte di quello spazio cittadino.
Le OGR, infatti, furono costruite nel 1884 in quella che allora era una zona che si trovava al di fuori delle mura cittadine. Inserite in un piano urbanistico che vide la costruzione, in quel periodo, delle Carceri Le Nuove (oggi museo del carcere), del nuovo mattatoio comunale e, di tutta una serie di industrie grandi e piccole, le officine, di proprietà delle ferrovie dello stato, furono il primo grande emblema dell’industrializzazione torinese nascente. Con i loro 190.000 metri quadrati di superficie, esse rappresentarono anche il centro dello sviluppo di un nuovo quartiere, Borgo San Paolo, dove la maggior parte degli operai che lavoravano nella zona andò a vivere.
Questi operai rappresentavano, in qualche modo, l’aristocrazia dei lavoratori. Entrare, infatti, alle OGR non era facile. Per essere assunti la direzione ferroviaria[1] chiedeva agli aspiranti lavoratori di costruire il “capolavoro”: un attrezzo, o un marchingegno, o, infine, un ingranaggio di alta precisione che rappresentasse in qualche modo l’apice della capacità artigianale dell’operaio. Borgo San Paolo divenne anche, proprio per la sua composizione operaia di alta specializzazione, un centro dove le idee dell’allora nascente socialismo attecchirono facilmente. È qui, solo per fare un esempio, che il giovane studente Antonio Gramsci cominciò il suo percorso di dirigente politico o, ancora, è sempre questo borgo, fatto di lavoratori con una consapevolezza profonda e radicata del proprio ruolo e della propria responsabilità sociale, politica e civile, a dare un contributo fondamentale alla resistenza contro i nazisti.
La storia delle Officine Grandi Riparazioni, dove una carrozza o una locomotiva mal messa e vecchia ne poteva uscire completamente rinnovata, dura 105 anni. All’inizio degli anni Novanta, infatti, l’Italia è cambiata. Si decide che i treni è meglio comprarli nuovi piuttosto che ripararli. O è meglio buttarli in qualche binario morto e non sostituirli per niente. Gli italiani utilizzano sempre di più altri mezzi di trasporto e i lavoratori cominciano il loro grande esodo verso lidi politici che qualche anno prima sarebbero stati impensabili.
Anche l’economia di un’intera nazione cambia. Torino e la vicenda delle OGR rappresentano, in questo senso, fra i primi segni che gli italiani si sono stancati dell’industria, della fatica e della sporcizia che si cela nei ventri di cemento e acciaio di quelle cattedrali rumorose. È necessario fare altro ed è così che in un primo momento si decide di demolire le Officine e, invece, dopo si pensa di restituire quello spazio immenso alla cittadinanza, uno spazio che da luogo di produzione industriale diventa luogo di produzione culturale o, meglio, d’industria culturale.
Casi come quello delle Officine Grandi Riparazioni, in cui un’attività industriale è dismessa per fare posto a un’attività legata alla cultura o ai servizi, si potrebbero citare a centinaia. La tonnara di Favignana, per esempio, dove oggi è possibile assistere a mostre, spettacoli, concerti, proiezioni di film e così via. O, ancora, le ex Fonderie Reali di Palermo, dove oggi si celebrano i matrimoni civili: un luogo, quindi, dove ieri si fondevano metalli e oggi vite.
In un bel saggio del 1992, A view from Federal Hill, David Harvey analizzava i cambiamenti socio-culturali e spaziali intervenuti nella città di Baltimora a cominciare dal periodo post-bellico fino ai primi anni Novanta. In questo saggio Harvey rileva che l’economia della città americana si è trasformata da un’economia industriale a una di servizi e di finanza. Questo è un processo che negli ultimi anni ha investito l’intero comparto industriale e politico. Attualmente non c’è cittadina industrializzata e, allo stato attuale deindustrializzata, che non voglia riconvertire il proprio polo industriale dismesso in qualche altra attività di servizio, o turistico, o culturale. Nel post Il PresidenteCrocetta e la mitopoesi del dopo-Fiat siciliano, ho messo in evidenza il fatto che la proposta di reindustrializzazione del sito automobilistico siciliano del governo regionale è fallace e, almeno, nella fase attuale, irrealizzata. Tale proposta ha creato malumori fra gli operai anche, ma naturalmente non solo, perché toglie la possibilità alla popolazione locale di rimodulare la memoria e l’identità di cui la fabbrica Fiat dismessa, volenti o nolenti, è il simbolo.
Ciò che intendo dire è che, casi come quello delle OGR, all’interno delle quali oggi sono organizzate mostre e concerti musicali di cantanti famosi, per essere attualizzati e messi in opera richiedono il loro tempo. La comunità deve fare i conti con se stessa guardarsi in faccia attraverso quel simbolo, capire cosa farne.
Nel caso di Termini Imerese, invece, questo tempo sta mancando. Non c’è più tempo di aspettare che la Fiat o gli Enti locali decidano cosa fare dello stabilimento e degli operai perché il 31 dicembre questi saranno definitivamente licenziati. Non c’è ancora il tempo di pensare una riconfigurazione dello stabilimento poiché, ancora oggi, molti degli operai e degli abitanti credono e sperano che presto si risveglieranno dall’incubo della chiusura della fabbrica, indosseranno ancora la tuta da lavoro e varcheranno i cancelli come se nulla fosse.
Se nel caso delle OGR è possibile parlare di rimodulazione spaziale e simbolica abbastanza riuscita, ma, è bene dirlo, anche economicamente e produttivamente marginale rispetto a quando qui si riparavano i treni; nel caso della Fiat di Termini Imerese la fabbrica e lo spazio fisico occupato da essa sono ancora troppo presenti nel panorama immaginario locale, troppo pesanti e troppo vicini per pensare a una rimodulazione radicale. E se lo spazio, in questo caso, è troppo pesante, è troppo denso, la percezione temporale inevitabilmente ne subisce i contraccolpi tranciandone di netto la proiezione e la profondità storica: un tempo accartocciato su se stesso e cieco, elemento costitutivo principale dell’attuale condizione precaria.



[1] Per dire dell’importanza delle Officine Grandi Riparazioni, basti soltanto ricordare che nei primissimi anni di attività esse furono affidate alla direzione dell’ingegnere Germano Sommeiller, l’inventore della perforatrice ad aria compressa, utilizzata nel traforo del Frejus, e il costruttore della strada ferrata Torino-Genova.

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