La gente è in fila davanti ai cancelli. Degli uomini con le
giacche giallo-fosforescenti controllano le borse di chi entra per assicurarsi
che all’interno non ci siano bottiglie di liquori. Alcune ragazze, anche queste
con le giacche giallo-fosforescenti, sono ferme accanto a scatole con una
fessura sulla parte superiore e chiedono una piccola offerta. Francesco M. ed io, due operai
precari, senza memoria e con un futuro perso in un vago quanto impacciato
“vedremo”, varchiamo i cancelli e davanti a noi si apre un grande cortile con
ghiaia rossa e, proprio al centro, una passerella bianca e nera, che attraversa
il cortile in tutta la sua lunghezza. A destra quello che fu il reparto
Fonderie e Fucine: uno spazio immenso a tre navate su cui è installato un palco
e, a sinistra di questo, angoli ristoro dove è possibile comprare panini e
birre a buon mercato. Passiamo oltre. Di fronte a noi adesso si apre una specie
di hall con stand in cui è possibile acquistare t-shirt, libri, cd musicali. A
sinistra della hall uno spazio diviso da mura bianche su cui sono appesi quadri
di arte contemporanea e, alla fine delle mura, un altro palco. A sinistra
un’altra grande ala, la sala delle macchine, dove si trovano foto di cantanti
famosi e in fondo al salone, un cantante, in carne e ossa, si presta all’occhio
scrutatore del fotografo: appostato contro il muro, assume posizioni innaturali
e sembra, in fondo, voler sfuggire a quella fucilazione digitale. Ecco cosa
sono oggi le Officine Grandi Riparazioni. Uno spazio restituito alla città di
Torino. Uno spazio che, in qualche modo, ha creato una buona parte di quello
spazio cittadino.
Le OGR, infatti, furono costruite nel 1884 in quella che
allora era una zona che si trovava al di fuori delle mura cittadine. Inserite
in un piano urbanistico che vide la costruzione, in quel periodo, delle Carceri
Le Nuove (oggi museo del carcere), del nuovo mattatoio comunale e, di tutta una
serie di industrie grandi e piccole, le officine, di proprietà delle ferrovie
dello stato, furono il primo grande emblema dell’industrializzazione torinese
nascente. Con i loro 190.000 metri quadrati di superficie, esse rappresentarono
anche il centro dello sviluppo di un nuovo quartiere, Borgo San Paolo, dove la
maggior parte degli operai che lavoravano nella zona andò a vivere.
Questi operai rappresentavano, in qualche modo,
l’aristocrazia dei lavoratori. Entrare, infatti, alle OGR non era facile. Per
essere assunti la direzione ferroviaria[1]
chiedeva agli aspiranti lavoratori di costruire il “capolavoro”: un attrezzo, o
un marchingegno, o, infine, un ingranaggio di alta precisione che
rappresentasse in qualche modo l’apice della capacità artigianale dell’operaio.
Borgo San Paolo divenne anche, proprio per la sua composizione operaia di alta
specializzazione, un centro dove le idee dell’allora nascente socialismo
attecchirono facilmente. È qui, solo per fare un esempio, che il giovane studente
Antonio Gramsci cominciò il suo percorso di dirigente politico o, ancora, è
sempre questo borgo, fatto di lavoratori con una consapevolezza profonda e
radicata del proprio ruolo e della propria responsabilità sociale, politica e
civile, a dare un contributo fondamentale alla resistenza contro i nazisti.
La storia delle Officine Grandi Riparazioni, dove una
carrozza o una locomotiva mal messa e vecchia ne poteva uscire completamente
rinnovata, dura 105 anni. All’inizio degli anni Novanta, infatti, l’Italia è
cambiata. Si decide che i treni è meglio comprarli nuovi piuttosto che
ripararli. O è meglio buttarli in qualche binario morto e non sostituirli per
niente. Gli italiani utilizzano sempre di più altri mezzi di trasporto e i
lavoratori cominciano il loro grande esodo verso lidi politici che qualche anno
prima sarebbero stati impensabili.
Anche l’economia di un’intera nazione cambia. Torino e la
vicenda delle OGR rappresentano, in questo senso, fra i primi segni che gli
italiani si sono stancati dell’industria, della fatica e della sporcizia che si
cela nei ventri di cemento e acciaio di quelle cattedrali rumorose. È
necessario fare altro ed è così che in un primo momento si decide di demolire
le Officine e, invece, dopo si pensa di restituire quello spazio immenso alla
cittadinanza, uno spazio che da luogo di produzione industriale diventa luogo
di produzione culturale o, meglio, d’industria culturale.
Casi come quello delle Officine Grandi Riparazioni, in cui
un’attività industriale è dismessa per fare posto a un’attività legata alla
cultura o ai servizi, si potrebbero citare a centinaia. La tonnara di
Favignana, per esempio, dove oggi è possibile assistere a mostre, spettacoli,
concerti, proiezioni di film e così via. O, ancora, le ex Fonderie Reali di
Palermo, dove oggi si celebrano i matrimoni civili: un luogo, quindi, dove ieri
si fondevano metalli e oggi vite.
In un bel saggio del 1992, A view from Federal Hill, David Harvey analizzava i cambiamenti
socio-culturali e spaziali intervenuti nella città di Baltimora a cominciare
dal periodo post-bellico fino ai primi anni Novanta. In questo saggio Harvey
rileva che l’economia della città americana si è trasformata da un’economia
industriale a una di servizi e di finanza. Questo è un processo che negli
ultimi anni ha investito l’intero comparto industriale e politico. Attualmente
non c’è cittadina industrializzata e, allo stato attuale deindustrializzata,
che non voglia riconvertire il proprio polo industriale dismesso in qualche
altra attività di servizio, o turistico, o culturale. Nel post Il PresidenteCrocetta e la mitopoesi del dopo-Fiat siciliano, ho messo in evidenza il fatto che la
proposta di reindustrializzazione del sito automobilistico siciliano del
governo regionale è fallace e, almeno, nella fase attuale, irrealizzata. Tale
proposta ha creato malumori fra gli operai anche, ma naturalmente non solo,
perché toglie la possibilità alla popolazione locale di rimodulare la memoria e
l’identità di cui la fabbrica Fiat dismessa, volenti o nolenti, è il simbolo.
Ciò che intendo dire è che, casi come quello delle OGR,
all’interno delle quali oggi sono organizzate mostre e concerti musicali di
cantanti famosi, per essere attualizzati e messi in opera richiedono il loro
tempo. La comunità deve fare i conti con se stessa guardarsi in faccia
attraverso quel simbolo, capire cosa farne.
Nel caso di Termini Imerese, invece, questo tempo sta
mancando. Non c’è più tempo di aspettare che la Fiat o gli Enti locali decidano
cosa fare dello stabilimento e degli operai perché il 31 dicembre questi saranno
definitivamente licenziati. Non c’è ancora il tempo di pensare una
riconfigurazione dello stabilimento poiché, ancora oggi, molti degli operai e
degli abitanti credono e sperano che presto si risveglieranno dall’incubo della
chiusura della fabbrica, indosseranno ancora la tuta da lavoro e varcheranno i
cancelli come se nulla fosse.
Se nel caso delle OGR è possibile parlare di rimodulazione
spaziale e simbolica abbastanza riuscita, ma, è bene dirlo, anche
economicamente e produttivamente marginale rispetto a quando qui si riparavano
i treni; nel caso della Fiat di Termini Imerese la fabbrica e lo spazio fisico
occupato da essa sono ancora troppo presenti nel panorama immaginario locale,
troppo pesanti e troppo vicini per pensare a una rimodulazione radicale. E se
lo spazio, in questo caso, è troppo pesante, è troppo denso, la percezione
temporale inevitabilmente ne subisce i contraccolpi tranciandone di netto la
proiezione e la profondità storica: un tempo accartocciato su se stesso e
cieco, elemento costitutivo principale dell’attuale condizione precaria.
[1] Per dire dell’importanza
delle Officine Grandi Riparazioni, basti soltanto ricordare che nei primissimi
anni di attività esse furono affidate alla direzione dell’ingegnere Germano
Sommeiller, l’inventore della perforatrice ad aria compressa, utilizzata nel
traforo del Frejus, e il costruttore della strada ferrata Torino-Genova.
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