In un testo del 1957,
Georges Balandier scriveva:
Se moi
est haïssable,
occorre fare eccezione per l'etnologo. Egli deve collocare la propria
testimonianza, che procede non tanto da una tecnica esperta quanto da
molteplici interferenze fra la civiltà osservata e il suo
osservatore. Il suo lavoro sul campo implica un'estrema sensibilità,
un continuo sforzo di adattamento. È anche necessario ch'egli scopra
se stesso nel momento stesso in cui studia i risultati della sua
ricerca (Balandier G., 1957, Afrique
ambigüe,
Parigi: 14-15).
Quello che segue è un altro stralcio del mio diario di campo in cui tento di
riflettere sulle dinamiche di fabbrica e su come queste avvolgono e
fagocitino il ricercatore. Questo graduale assorbimento, unitamente
alla fase di analisi dei proprio dati e del proprio ruolo nel
contesto di campo, permettono di mettere in luce aspetti del
carattere del ricercatore che in altri contesti non sarebbero mai
potuti emergere. In questo modo è anche possibile evidenziare le
dinamiche che si instaurano fra osservatore e osservato, fondamentali
per un processo di conoscenza come quello etnoantropologico in cui il
laboratorio empirico è lo scorrere incessante e frenetico della
stessa vita.
Torino, 10/08/2013
Comincio a codificare sempre di più le
dinamiche che agitano la fabbrica e a rimanerne imbrigliato, mio
malgrado. Ci sono giorni che non riesco tollerare la pesantezza dei
discorsi dei miei colleghi, che vertono sempre sulla nostra
condizione precaria, sugli abusi e i soprusi che siamo costretti a
ingoiare. Pensare a tutto questo, soprattutto quando sono stanco, mi
destabilizza.
Il fatto che riesca a codificare quelle
dinamiche implica che anche io comincio a farne parte, a rimanere
imbrigliato nel movimento, sempre diverso e sempre uguale, provocato
dallo scontro/incontro dei soggetti in società. Ho notato di avere
due modi di base con cui rapportarmi agli altri, in questa
situazione: il primo è simpatico e scapestrato e il secondo,
all’estremo opposto, è schivo e defilato.
Nel primo caso, durante i pochi minuti
di pausa tendo a raccontare aneddoti divertenti della mia vita.
Spesso faccio questo in siciliano, anche se molte parole qui non
vengono capite. In questo caso il mio modo per intrattenere una
relazione con l’altro passa attraverso le risate e l’ilarità:
mostrarmi come un ragazzo leale, ma che conosce il mondo e sa il
fatto suo. Utilizzo il siciliano e mi sono reso conto che, nella
cerchia di torinesi che frequento, questo dialetto è percepito come
ilare e, volendo esagerare, “esotico”. Dal mio punto di vista,
questo dialetto è stato da sempre il mio primo approccio al mondo,
la lingua che mi identifica, non per una questione di orgoglio
posticcio e mieloso o di fierezza meridionalista che non mi
appartiene. Ma perché questo dialetto è il mio strumento primo e di
base con cui sono cresciuto e tramite cui ho imparato a conoscere e
discretizzare il mondo. Wittgenstein ha scritto che: «I limiti del
mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» intendendo in questo
mondo che i fatti che accadono producono altri fatti in una serie
infinita, ma ciò che rimane finito, e che quindi rappresenta il
confine del mondo di ognuno di noi, è la nostra lingua; il modo con
cui noi discretizziamo il mondo: il siciliano è stato il mio primo
limite del mondo e quello da cui riparto ogni volta che posso; ogni
volta che sento l'inconscia necessità di avere un punto fermo.
Il secondo modo di approcciarmi agli
altri è molto più ruvido e aggressivo. Tendo a emarginarmi e a
ricercare scampoli solitudine. In questi casi, il silenzio è il mio
primo attrezzo di comunicazione e, se proprio devo parlare, di solito
li faccio per mandare a quel paese qualcuno.
È strano vedere come dei modi del tuo
essere con cui hai convissuto per tutta una vita emergano in una
situazione del tutto nuova, in cui nessuno ti conosce, sa come eri
prima e come sei adesso: una situazione in cui i punti fermi te li
devi cercare da solo.
Cosa rimane quando tutto è lontano?
Quando ti guardi nudo allo specchio? Rimane ciò che sei veramente,
ciò che hai imparato a essere e rimangono i tuoi modi di
essere-nel-mondo che, come punti luminosi lungo un percorso oscuro,
indicano la via da seguire.
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