Racconti dal mondo precario

lunedì 16 settembre 2013

Il concetto di deindustrializzazione in antropologia


Spesso, nei post precedenti, ho utilizzato il termine deindustrializzazione. Credo, adesso, che sia arrivato il momento di chiarire cosa intendo con tale termine e il valore che esso può avere all’interno degli studi di antropologia.
La parola deindustrializzazione è entrata nel linguaggio comune abbastanza recentemente e si è diffusa nel periodo dell’attuale crisi economica. Ciò, tuttavia, non significa che i processi di chiusura delle fabbriche e la crisi del settore manifatturiero siano apparsi nella storia del mondo altrettanto recentemente o partire dal 2009 né, tantomeno, che gli antropologi non si siano mai occupati di indagare quelle realtà che da una fase di espansione e di sviluppo industriale si sono trasformate in altro.
Uno dei primi testi a trattare degli effetti sociali della chiusura di alcune realtà di tipo industriale è quello dato alle stampe da Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel (2002 [I ed. 1933]). Il testo tratta delle condizioni socio-economiche ed esistenziali di alcuni disoccupati nella città di Marienthal, a seguito della chiusura delle miniere e delle fabbriche locali determinata dalla crisi economica del 1929. Il testo, che per alcuni anni è circolato in forma anonima per permettere ai suoi autori di sfuggire alla repressione nazista, è ormai considerato un classico delle scienze sociali. In esso gli autori, analizzano i disoccupati di lunga durata della cittadina austriaca partendo da valutazioni di tipo sociologico (quante volte a settimana i disoccupati riescono ad avere un pasto completo, i tipi di vestiti posseduti e il loro stato, le abitudini intellettuali ecc.). Tuttavia, questo saggio acquista un valore importante per gli studi dell’antropologia contemporanea, grazie all’analisi di alcuni elementi quali la concezione e la percezione dello scorrere del tempo dei disoccupati locali e il verificarsi di un certo numero di trasformazioni nelle dinamiche di potere fra generi.
Un altro testo fondamentale nella questione della deindustrializzazione, nell’ambito degli studi di scienze sociali, è Expectations of Modernity: Myths and Meanings of Urban Life on the Zambian Copperbelt (1999) di James Ferguson. In questo testo, l’antropologo americano, attraverso l’analisi della vicenda di tredici ex-minatori, analizza i processi di deindustrializzazione e del ritorno a un’economia di sussistenza basata principalmente sull’agricoltura. Ferguson è forse il primo a notare, nell’ambito degli studi di scienze sociali, il fatto che se da un lato la globalizzazione economica e, solo in un secondo momento culturale, ha messo in connessione paesi anche molto lontani fra loro. Tale processo ha anche prodotto, come afferma lo stesso Ferguson, tutta una serie di disconnessioni di altre zone geografiche che, con l’apertura di nuovi mercati e di nuovi flussi economici, hanno perso la loro importanza politica ed economica provocando tutta una serie di profonde trasformazioni socio-culturali.
Un altro testo che, sebbene affronti la questione della disoccupazione, tratta il tema della deindustrializzazione in maniera collaterale, è il testo di Leo Howe, Being unemployed in Northern Ireland. An ethnographic study (1990). Qui l’autore affronta la questione della disoccupazione e delle strategie per fare fronte a questa condizione nelle comunità cattoliche e protestanti dei suburbi di Belfast. Il testo è molto interessante per le modalità di ricerca dell’autore, il quale frequenta sia le due comunità religiose sia gli uffici delle agenzie per il lavoro. In questa situazione ciò che emerge, in estrema sintesi, è come per la prima volta lo stato di disoccupazione sia analizzato, grazie al rapporto con gli informatori, non come semplicemente una condizione economica, ma come una questione simbolica correlata sia al proprio sostrato sociale, sia alla percezione e all’etica del lavoro derivante dalle due confessioni religiose cui fanno riferimento gli informatori.
Infine un altro testo interessante è A view from Federal Hill (2001: 246-249), dove per la prima volta, attraverso la vicenda della città di Baltimora, la deindustrializzazione e la conseguente finanziarizzazione dell’economia locale sono trattate non come un caso isolato, bensì come un processo caratteristico di tutti quei paesi che presentano un avanzato stato d’industrializzazione1.
Tali testi dimostrano come la deindustrializzazione, presente, almeno nella storia dell’Occidente, già dai primi del Novecento, abbia assunto gradualmente i caratteri di un processo strutturale che, tuttavia, si è reso pienamente visibile solo con l’esplodere della crisi economica attuale2. La deindustrializzazione rappresenta, quindi, un profondo mutamento che si ripercuote sulla struttura sociale e sulle pratiche comunitarie e simboliche.
L’immediato risultato di tale mutamento è, al livello sociale, l’insorgere di uno stato di precarietà che logora le tradizionali pratiche sociali, politiche, economiche ed esistenziali che fino a qualche anno fa si ritenevano fondamentali della nostra società3.
Luciano Gallino, che di flessibilizzazione e di precarietà si è occupato in diversi testi, scrive:

Il tratto che accomuna gran parte dei lavoratori flessibili è appunto il loro essere precari, predicato che – a rigor di dizionario – riassume due cose. Anzitutto l’essere in varia guisa, codesti lavori, e da diversi punti di vista, insicuri, temporanei soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fugaci. In secondo luogo, come dice bene l’etimo del termine “precario”, sono lavori che bisogna pregare per ottenere […]. Il senso della precarietà dell’occupazione, la consapevolezza che, per quanto bene uno svolga il proprio lavoro, la durata e la qualità della sua occupazione non ne saranno quasi mai positivamente influenzate, più l’umiliazione di dover pregare qualcuno per continuare a lavorare, rientrano tra gli oneri che gli addetti a lavori flessibili collocano non solo tra i più pesanti ma pure tra i più sgradevoli (Gallino, 2012: 126-127).

Se questa rappresenta un’immagine di massima degli attuali precari italiani, soprattutto nell’ambito di una progressiva deindustrializzazione e di una terziarizzazione dell’economia sempre più avanzata, è Guy Standing che fornisce una definizione dell’attuale classe precaria:

Quel che manca ai precari, oltre la sicurezza lavorativa e il reddito sociale, è l'identità professionale. Quando vengono assunti, occupano posti che non danno prospettive di carriera, per cui non vi è una tradizione o una memoria condivisa e non si prova la sensazione di appartenere a una comunità occupazionale inquadrata in pratiche consolidate, con codici e norme di comportamento e rapporti di reciprocità e fraternità. Il lavoratore precario non si sente integrato in una collettività lavorativa solidale. Ciò accresce il senso di alienazione e strumentalizzazione nell'assolvimento del proprio compito. [...] Al precariato manca una identità professionale, sebbene alcuni una qualifica ce l'abbiano, mentre altri rispondono a titoli alla moda e improbabili (Standing 2012: 29-30).

Alla luce di quanto appena detto, quindi la questione della deindustrializzazione e delle sue implicazioni sociali, prima di tutto quella del precariato, rappresentano una delle sfide che la contemporaneità lancia all’antropologia. Compito di questa, a mio avviso, deve essere cogliere quella sfida e analizzare realmente e tenacemente le mutazioni, le dinamiche e i conflitti che un tale stato precario, deindustrializzato pone alla scienza antropologica al fine di contribuire a un’analisi e a una comprensione di tali dinamiche che esuli da interpretazioni di comodo o capziose.

Riferimenti bibliografici
Ferguson J., 1999, Expectations of Modernity: Myths and Meanings of Urban Life on the Zambian Copperbelt, University of California Press, Berkeley-Calif.
Gallino L. 2012, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari.
Harvey D., 2001, A view from Federal Hill, in id. Spaces of capital. Towards a critical geography, Routledge, New York, pp. 246-249.
Howe L., 1990, Being unemployed in Northern Ireland. An ethnographic study, Cambridge University Press, New York.
Jahoda M., Lazarsfeld P. F., Zeisel H., 2002, Marienthal. The Sociography o fan Unemployed Community, Tranzaction Publishers, New Bruswick-London (ed. or. 1933, Die Arbeitslosen von Marienthal. Ein soziographischer Versuch über die Wirkungen langandauernder Arbeitslosigkeit, Hirzel, Leipzig).
Standing G., 2012, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna (ed. or. 2011, The Precariat: The new dangerous class, Bloomsbury Academic, London-New York).

1La presente rassegna di testi non ha nessuna pretesa di esaustività. Solo per fare qualche esempio, rimangono fuori da tale rassegna testi del calibro di Made in Sheffield. An ethnography of industrial work and politics (2009) Massimiliano Mollona e Industrial work and life. An Anthropological reader (2009) curato dallo stesso Mollona, De Neeve e Parry. Questi testi, tuttavia, unitamente a quelli in precedenza citati rappresentano dei punti di partenza da cui è possibile estrapolare le principali tematiche riguardanti la deindustrializzazione attuale.



2A supporto di tale ipotesi è possibile citare le elaborazioni dell’agenzia giornalistica Adnkronos sui dati Istat. Secondo tale agenzia, negli ultimi dieci anni (2002-2012) la produzione industriale italiana è calata del 17,8%. Cfr. http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Produzione-industriale-in-caduta-libera--178-negli-ultimi-dieci-anni_32462252936.html



3Il processo di precarietà e di precarizzazione dei lavoratori italiani risulta evidente dai dati Istat sull’andamento del mondo del lavoro. Come rileva, infatti, il Rapporto Istat 2013: «Nell’industria in senso stretto, la riduzione dell’occupazione complessiva è stata relativamente marcata sia in termini di forze di lavoro (-1,8 per cento), sia in termini di Ula (-1,9 per cento). […]La diminuzione dell’occupazione totale ha coinvolto sia gli occupati dipendenti (-0,2 per cento la variazione media del 2012), sia gli indipendenti (-0,7 per cento) (Tavola 1.10). Tra i dipendenti, a fronte di una caduta degli occupati a tempo indeterminato (-0,7 per cento) si è verificata una crescita degli occupati a termine (3,1 per cento); inoltre, alla riduzione dell’occupazione dipendente a tempo pieno (-2,1 per cento), ha corrisposto l’aumento di quella a tempo parziale (4,1 per cento)» (Istat, 2013: 37-38).


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