Racconti dal mondo precario

venerdì 20 settembre 2013

La pesante soggettività dell'etnologo

In un testo del 1957, Georges Balandier scriveva:

Se moi est haïssable, occorre fare eccezione per l'etnologo. Egli deve collocare la propria testimonianza, che procede non tanto da una tecnica esperta quanto da molteplici interferenze fra la civiltà osservata e il suo osservatore. Il suo lavoro sul campo implica un'estrema sensibilità, un continuo sforzo di adattamento. È anche necessario ch'egli scopra se stesso nel momento stesso in cui studia i risultati della sua ricerca (Balandier G., 1957, Afrique ambigüe, Parigi: 14-15).

Quello che segue è un altro stralcio del mio diario di campo in cui tento di riflettere sulle dinamiche di fabbrica e su come queste avvolgono e fagocitino il ricercatore. Questo graduale assorbimento, unitamente alla fase di analisi dei proprio dati e del proprio ruolo nel contesto di campo, permettono di mettere in luce aspetti del carattere del ricercatore che in altri contesti non sarebbero mai potuti emergere. In questo modo è anche possibile evidenziare le dinamiche che si instaurano fra osservatore e osservato, fondamentali per un processo di conoscenza come quello etnoantropologico in cui il laboratorio empirico è lo scorrere incessante e frenetico della stessa vita.

Torino, 10/08/2013
Comincio a codificare sempre di più le dinamiche che agitano la fabbrica e a rimanerne imbrigliato, mio malgrado. Ci sono giorni che non riesco tollerare la pesantezza dei discorsi dei miei colleghi, che vertono sempre sulla nostra condizione precaria, sugli abusi e i soprusi che siamo costretti a ingoiare. Pensare a tutto questo, soprattutto quando sono stanco, mi destabilizza.
Il fatto che riesca a codificare quelle dinamiche implica che anche io comincio a farne parte, a rimanere imbrigliato nel movimento, sempre diverso e sempre uguale, provocato dallo scontro/incontro dei soggetti in società. Ho notato di avere due modi di base con cui rapportarmi agli altri, in questa situazione: il primo è simpatico e scapestrato e il secondo, all’estremo opposto, è schivo e defilato.
Nel primo caso, durante i pochi minuti di pausa tendo a raccontare aneddoti divertenti della mia vita. Spesso faccio questo in siciliano, anche se molte parole qui non vengono capite. In questo caso il mio modo per intrattenere una relazione con l’altro passa attraverso le risate e l’ilarità: mostrarmi come un ragazzo leale, ma che conosce il mondo e sa il fatto suo. Utilizzo il siciliano e mi sono reso conto che, nella cerchia di torinesi che frequento, questo dialetto è percepito come ilare e, volendo esagerare, “esotico”. Dal mio punto di vista, questo dialetto è stato da sempre il mio primo approccio al mondo, la lingua che mi identifica, non per una questione di orgoglio posticcio e mieloso o di fierezza meridionalista che non mi appartiene. Ma perché questo dialetto è il mio strumento primo e di base con cui sono cresciuto e tramite cui ho imparato a conoscere e discretizzare il mondo. Wittgenstein ha scritto che: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» intendendo in questo mondo che i fatti che accadono producono altri fatti in una serie infinita, ma ciò che rimane finito, e che quindi rappresenta il confine del mondo di ognuno di noi, è la nostra lingua; il modo con cui noi discretizziamo il mondo: il siciliano è stato il mio primo limite del mondo e quello da cui riparto ogni volta che posso; ogni volta che sento l'inconscia necessità di avere un punto fermo.
Il secondo modo di approcciarmi agli altri è molto più ruvido e aggressivo. Tendo a emarginarmi e a ricercare scampoli solitudine. In questi casi, il silenzio è il mio primo attrezzo di comunicazione e, se proprio devo parlare, di solito li faccio per mandare a quel paese qualcuno.
È strano vedere come dei modi del tuo essere con cui hai convissuto per tutta una vita emergano in una situazione del tutto nuova, in cui nessuno ti conosce, sa come eri prima e come sei adesso: una situazione in cui i punti fermi te li devi cercare da solo.
Cosa rimane quando tutto è lontano? Quando ti guardi nudo allo specchio? Rimane ciò che sei veramente, ciò che hai imparato a essere e rimangono i tuoi modi di essere-nel-mondo che, come punti luminosi lungo un percorso oscuro, indicano la via da seguire.

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