Sono arrivato nel magazzino siciliano in una calda mattina di luglio. Attorno al capannone di circa 5000 m2 soltanto
campagna brulla, sterpi e qualche pecora arginata da recinti acconciati
con vecchie reti di letti e qualche metro di filo spinato. Tutto
somigliava ben poco a quello che si potrebbe definire un polo
industriale sviluppato. Il mio compito qui
era quello di supportare e integrare la manodopera locale, quest’ultima
composta da quindici operai, nel trasferimento del magazzino di
componenti elettrici dalla zona di Capaci (Pa) a quella di Catania. Continua a leggere
sabato 1 novembre 2014
giovedì 1 maggio 2014
Identità operaia nell’evoluzione della fabbrica Fiat di Termini Imerese
La questione della nozione di persona, nell’ambito degli studi
socio-antropologici, ha da molto tempo occupato un posto centrale nella
riflessione di molti studiosi. Uno dei primi autori a occuparsi del tema
fu Marcel Mauss nel saggio del 1938 Une catégorie de l’esprit humaine: la notion de persone celle de «moi» in
cui per la prima volta, attraverso la comparazione del concetto di
persona in diversi contesti storici ed etnologici, il sociologo francese
oggettivava la distinzione, fra individuo e persona. [continua a leggere]
venerdì 25 aprile 2014
La retorica della crisi, l'emergenza e la nuda vita
Studiosi
quali Hannah Arendt e Michel Foucault hanno dimostrato, secondo linee
interpretative diverse ma convergenti, che il fondamento dei
movimenti totalitari e capitalistici sia quello di esercitare un
pervasivo governo delle vite degli individui e delle comunità
attraverso le scelte politiche e, sopratutto, le imposizioni
economiche. In questo senso, la nozione di biopolitica di Foucault è
funzionale a identificare e circoscrivere quello stretto legame fra
individui, politica e liberismo. Tale nozione è ripresa in un
importante saggio di Giorgio Agamben Homo sacer. Il potere sovrano
e la nuda vita. Centrale nella
trattazione di Agamben è, oltre il riferimento costante alla
biopolitica foucaultiana, la nozione di sacerità, ripresa dal
diritto romano. Per il filosofo italiano, l'homo sacer «è
colui che è stato escluso dal mondo degli uomini e che, pur non
potendo essere sacrificato, è lecito uccidere senza commettere
omicidio»1.
L'homo sacer, nel sistema filosofico agambiano, rappresenta colui che
è identificato come stato di eccezione all'interno di una comunità
e che è necessario alla sovranità per fondare ed esercitare il suo
potere. L'homo sacer è colui che, essendo ai limiti della società
e rappresentando egli stesso l'emergenza, è pervaso dalla nuda vita:
una esistenza su cui la sovranità può tutto. L'esempio principale
riportato da Agamben nel suo saggio è quello degli ebrei, durante il
Terzo Reich, su cui la sovranità hitleriana si esercitò attraverso
il potere di definire gli ebrei come il nemico pubblico per
eccellenza, l'emergenza del momento da debellare e su cui il diritto
di vita o morte si esercitò non direttamente da Hitler, ma bensì da
tutti coloro che facevano a pieno diritto parte della razza ariana.
Quello
degli ebrei, però, rappresenta un caso limite ed eclatante. Gli
effetti della biopolitica e degli eterni stati di eccezione ed
emergenza sono molto meno visibili e tuttavia altrettanto violenti.
Negli
ultimi anni, infatti, tutti noi abbiamo assistito ad un vero e
proprio bombardamento retorico sulla crisi economica in atto e sulle
misure di emergenza che continuamente i vari Stati, soprattutto
europei, hanno dovuto varare. Fra le varie misure da adottare per
fare fronte all'emergenza economica, vi è stata, oltre l'aumento
inaudito della pressione fiscale, una continua insistenza sulla
necessità di flessibilizzare il lavoro, di rinunciare a qualche
diritto e a un po' di retribuzione per mantenere un impiego. In
questo senso, la Riforma Fornero e il Jobs Act proposto da Matteo
Renzi sono
soltanto gli ultimi esiti di una retorica violenta e pressante che
sta tentando, e forse ci è già riuscita, di fare diventare quelle
misure di emergenza una pratica che rientra nella normalità. In
questo contesto, la sacerità di cui parla Agamben si applica
perfettamente a quella comunità di persone fra i 18 e i 39 anni,
appartenenti alle classi medio-basse, che possono essere sacrificate
in nome di un rilancio economico che, forse si potrebbe cominciare a
sospettare, non dipende dalla flessibilità del mercato del lavoro,
ma dalla mancanza di una politica industriale e professionale in
questo Paese.
Sul giornale il
Manifesto
del 10 aprile 2014 Giorgio Airaudo apre il suo articolo elencando una
serie di vertenze iniziate in questi giorni: quella della Agrati di
Torino, della Micron e della Neslte di Perugia. Tutte aziende a
rischio chiusura e con una minaccia continua di delocalizzazione non
in Cina, Malesia o chissà in quale Paese dalle condizione lavorative
schiaviste, ma in Francia o Germania. Inoltre, in almeno due dei tre
casi a cui qui si fa riferimento, si tratta di aziende con bilanci in
attivo, floride e non attraversate da una crisi delle commesse.
Questi casi e molti altri, come sostiene Airaudo, ci dicono che il
problema non è la crisi economica in Italia, ma le condizioni in cui
le aziende lavorano e, soprattutto, la solitudine dei lavoratori
italiani ad affrontare quelle crisi.
Un
Paese piegato alle logiche neo-liberiste europee e mondiali, che
opera in una condizione di perenne emergenza facendo passare ogni
singola negazione di diritto come un atto dovuto da chissà quale
entità trascendente è un Paese che ha ceduto la sua sovranità a
banche e imprese, le quali non sono degli enti nati per il bene
comune, ma per la tutela e l'arricchimento di pochi. Il bene comune,
in un mondo ideale, dovrebbe essere tutelato dai Governi e,
soprattutto, dal governo attuale che si pretende per i giovani e di
sinistra.
In
questo quadro, ciò che è successo il
12
aprile 2014 a Roma: le manifestazione dei precari, dei senza casa e
degli attivisti a vario titolo; gli scontri con la polizia; la rabbia
furibonda e ceca non sono
altro che l'estremo tentativo da parte di questa generazione di
ragazzi, cresciuta sotto l'egida costante di
mille emergenze quotidiane (casa,
lavoro, grandi opere ecc.), di non essere definitivamente trattata
come nuda vita su cui tutto è possibile. Una generazione il cui
timore è quello di essere definita sacra dalla retorica politica
contemporanea così da potere essere sacrificata senza che nessuno
sia un assassino.
1Agamben
G., 1990, La comunità che viene, Bollati Boringhieri,
Torino, p.59.
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sabato 1 marzo 2014
Antropologia del lavoro nella Fiat di Termini Imerese
Sul nuovo numero della rivista online dell'Istituto Euro Arabo, Dialoghi Mediterranei, potete trovare alcune brevi note sulla storia, l'evoluzione e la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese. Leggi l'articolo.
lunedì 10 febbraio 2014
Deindustrializzazione e mitopoiesi. Lo spazio della fabbrica dismessa
Abstract
La chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese ha rappresentato un evento tragico che ha coinvolto migliaia di persone. Tuttavia, tale evento ha creato le condizioni per cui diversi attori sociali (cittadini e istituzioni) hanno cominciato a operare un processo immaginario volto alla rimodulazione e alla risemantizzazione dello spazio della fabbrica dismessa. Attraverso un’attenta analisi etnografica dell’istallazione e della chiusura dello stabilimento, l’articolo tenta di ricostruire le basi di questo processo mitopoietico.
The closure of Fiat’s plant of Termini Imerese is a tragic event that involved thousands of people. However, this event created a situation in which different social agents (citizens and institutions) started an imaginary process aimed to re-modulate and give a new meaning to the space of the closed factory. Through a strong ethnographic analysis of the process of installation and closure of the plant, this article attempts to reconstruct the base of this mythopoeia.
La chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese ha rappresentato un evento tragico che ha coinvolto migliaia di persone. Tuttavia, tale evento ha creato le condizioni per cui diversi attori sociali (cittadini e istituzioni) hanno cominciato a operare un processo immaginario volto alla rimodulazione e alla risemantizzazione dello spazio della fabbrica dismessa. Attraverso un’attenta analisi etnografica dell’istallazione e della chiusura dello stabilimento, l’articolo tenta di ricostruire le basi di questo processo mitopoietico.
The closure of Fiat’s plant of Termini Imerese is a tragic event that involved thousands of people. However, this event created a situation in which different social agents (citizens and institutions) started an imaginary process aimed to re-modulate and give a new meaning to the space of the closed factory. Through a strong ethnographic analysis of the process of installation and closure of the plant, this article attempts to reconstruct the base of this mythopoeia.
deindustrializzazione | spazio | fiat | Termini Imerese | mitopoiesi
deindustrialization | space | fiat | Termini Imerese | mithopoeia.
deindustrialization | space | fiat | Termini Imerese | mithopoeia.
domenica 8 dicembre 2013
La colpa della malattia
Per dare
un senso alla malattia gli uomini hanno da sempre dovuto attribuirgli
delle cause, siano esse biomediche, sovrannaturali o simboliche.
Nel 2009
mi trovavo in Tanzania, nel villaggio di Nzihi, presso la popolazione
dei Wahehe. Lì indagavo, nell'ambito del mio percorso di studi
universitari, i modi di discretizzare e curare la malattia
dell'Hiv/Aids. Fra le cose che più di tutte mi colpirono durante le
indagini sul campo fu che ogni attore sociale da me intervistato dava
una sua peculiare lettura dell'insorgere e della diffusione del virus
in quella regione. Le posizioni che emersero, tuttavia, possono
essere riassunte essenzialmente in due grandi tesi: da una parte vi
erano coloro che, rifacendosi ad uno stile di vita che per
semplificare dirò tradizionale, sostenevano che il virus era
comparso a seguito delle grandi migrazioni dei giovani del villaggio
che, per trovare fortuna, erano andati a vivere nelle grandi città
della costa (Dar es Salam, Bagamoyo o, in alcuni casi l'isola di
Zanzibar). Dall'altra parte vi erano coloro che, forti di un bagaglio
culturale acquisito in alcuni anni di studio o di vita proprio nelle
grandi città, sostenevano che la colpa della diffusione era dovuto
allo stile di vita tradizionale e, in particolar modo, dall'istituto
matrimoniale hehe.
Nel primo
caso, l'insorgere del virus era dovuto al fatto che i giovani,
allontanandosi dal proprio villaggio, erano venuti meno a tutta una
serie di prescrizioni culturali che stavano alla base della società
hehe stessa come, per esempio, la cura degli antenati e, soprattutto
le relazioni coniugali intrattenute in quelle città senza il
consenso dell'intera famiglia e quindi al di fuori di un preciso
corpus di norme che regolavano lo scambio e la distribuzione della
ricchezza e delle donne fra clan della società hehe e fra questa e
il mondo degli antenati. Ciò aveva provocato, secondo molti, uno
squilibrio cosmico che minacciava la stessa esistenza della società.
Il virus, in quest'ottica, rappresentava la prova della trasgressione
di quelle leggi basilari.
Secondo i
sostenitori della seconda tesi, invece, istituti matrimoniali
peculiari della società hehe, come la poligamia e il levirato,
residui, per molti, di un passato vecchio, superato e viziato da
ignoranza, erano la causa della grande diffusione della malattia
nella regione di Iringa1.
Gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime secondo
l'opinione comune, sieropositivi avevano contratto il virus durante
relazioni extra-coniugali. Il virus, in seguito, sarebbe stato
trasmesso al partner che lo avrebbe trasmesso alle altre mogli (nel
caso dell'uomo) e ai figli (nel caso delle donne). In questo caso il
virus era la macchia indelebile, minacciosa e infamante per un intero
gruppo familiare.
Ciò che
accomunava le due tesi, tuttavia, era che la malattia era il frutto
di una trasgressione, di una violazione dell'ordine sociale che, in
definitiva, minacciava la convivenza e la reciprocità fra gli
uomini.
Recentemente,
in un contesto totalemente differente, mi sono nuovamente imbattuto
nella concezione della malattia come colpa da sanzionare.
Qualche
giorno fa, un'importante multinazionale di logistica ha proposto ai
suoi operai italiani un accordo: il premio di produzione annuale, che
ammonta a circa 162 euro per ogni singolo operaio dello stabilimento,
sarebbe stato corrisposto solo a quei lavoratori che avrebbero
usufruito dei giorni di mutua al di sotto di una certa soglia. I
sindacati, avendo ascoltato la proposta, hanno ad un certo punto
chiesto a quanti giorni di malattia avrebbero dovuto rinunciare gli
operai che volevano avere il loro premio di produzione. A tale
richiesta l'azienda ha risposto che se i sindacati avessero voluto
conoscere i dettagli, dovevano prima firmare l'accordo. Preso atto
della decisione aziendale di celare i termini precisi dell'accordo
fino a che lo stesso non fosse stato accettato dai lavoratori, i
sindacati hanno indetto un referendum che ha sancito un esito
positivo a favore dell'azienda (aventi diritto al voto 460
dipendenti, votanti 417, rispote affermative 371). A distanza di una
settimana dal voto, tuttavia, non si conoscono i termini precisi
dell'accordo e, però, bisogna chiedersi cosa cambierà in seguito a
questo accordo?
Il diritto
“alla mutua” è sancito come uno dei fondamenti della
legislazione in materia di lavoro vigente in Italia. Tuttavia, chi ne
usufruisce in abbondanza, per ragioni reali o meno, è spesso
additato di essere un dipendente con scarso senso del dovere nei
confronti della propria azienda e, negli ultimi anni, di essere anche
un ingrato nei confronti della stessa e di coloro che non hanno un
lavoro in ragione della situazione di disoccupazione o
sotto-occupazione generale. In altre parole chi oggi usufruisce della
malattia, a ragione o a torto, è considerato come uno scansafatiche,
un ingrato, un profittatore. Con il referendum proposto dalla
multinazionale, a mio avviso, si fa un ulteriore passo in avanti
verso la considerazione del dipendente malato come elemento
simbolicamente negativo. La malattia, in questa ottica, è sancita
definitivamente e chiaramente come un comportamento deviante e
usufruire dei giorni di mutua, oltre una non meglio specificata
soglia, è la dichiarazione ufficiale di inadeguatezza al lavoro, di
una colpa che va punita con il solo mezzo che oggi conta: il denaro,
o meglio, la negazione del denaro. La malattia è una colpa che, se
reiterata, può dichiarare un dipendente improduttivo, inutile, un
peso per l'azienda e, se tale malattia si diffonde, per la stessa
esistenza dell'azienda. Essa diventa così una minaccia latente per
l'intera comunità di lavoratori.
La lettura
dello stato di malato, in questo particolare contesto lavorativo, si
trasforma da diritto dei lavoratori a dispositivo di divisione e
governo della comunità dei lavoratori che, presi in una continua
lotta fra poveri, potranno identificare nel loro compagno, veramente
o falsamente, malato un potenziale motivo di minaccia del proprio
lavoro, un sicuro concorrente profittatore che vorrebbe accedere ad
un incentivo che in fondo non lo riguarda e, infine, ad un simbolico
untore di un intero stabilimento, che troverà un altro escamotage
per minacciare chiusura ad ogni piè sospinto.
È la
malattia del nostro vicino e, non sia mai, la nostra stessa malattia
a renderci precari? Una malattia che abbiamo la necessità, sempre,
comunque e dovunque, in Tanzania come in Italia, come in qualunque
altro posto, di vedere come una colpa, come uno stato di una evidente
trasgressione? Sono quelle 162 euro di premio di produzione negato a
sancire il nostro stato patologico?
Se è così
siamo davvero un paese malato per cui la cura è ancora di là da
venire.
1La
regione di cui fa parte il villaggio di Nzihi.
lunedì 21 ottobre 2013
Per un'antropologia dei corpi a riposo. Note di campo.
Torino 4/10/2013
Sono rientrato giorno 1 dopo 17 giorni di “vacanza” in Sicilia.
Sono rientrato cominciando a lavorare nel primo turno (6-14). Ciò
significa sveglia alle 4,30 , colazione, quindici o venti minuti di
di auto. Poi lavoro senza interruzioni, senza una sola parola
scambiata o da scambiare con chi ti circonda perché siete tutti
troppo addormentati. Pausa di dieci minuti con un caffè e una
sigaretta consumati così velocemente e avidamente da sembrare gli
ultimi della tua vita. Riprendi il lavoro. Solo e in silenzio per due
ore e mezzo, fino alla pausa pranzo, che dura quaranta minuti.
Quando finisce questa pausa ti senti quasi salvo, pensi che sei
arrivato alla fine della tua giornata e che te ne potrai tornare a
casa e riprendere la tua vita: gli ultimi ottanta minuti di lavoro e
sei fuori. A volte, però, ti chiedono di fare due ore di
straordinario e allora la storia si complica, devi respirare a fondo,
devi stare calmo per arrivare alla fine di 10 ore di lavoro con
dignità.
Dopo quattro giorni di questa vita sono tornato a casa e quello che
doveva essere un riposino pomeridiano si è trasformato in un sonno
profondo durato più di due ore. La stanchezza era così forte che il
mio sonno, che generalmente paragonerei a una condizione di
a-presenza in cui scivolo piano, oggi è stato un tonfo
nell'incoscienza piena: un pesante buco nero che non riesco ancora a
togliermi di dosso.
Bisognerebbe riflettere più spesso oltre che sui corpi a lavoro
anche sui corpi a riposo dal lavoro per avere una visione chiara e,
quanto più possibile, olistica della questione del lavoro e del
corpo in antropologia. Le trasformazioni del corpo al di fuori del
lavoro, infatti, sono il simbolo di come l'attività lavorativa
stessa modifichi le nostre vite a di versi livelli. Nel mio caso, la
stanchezza esagerata provocata dal lavoro mi ha portato a dormire una
quantità di tempo per me estremamente inusuale. Ciò ha inciso
direttamente sul mio fisico facendo insorgere un fastidioso mal di
testa, che ha condizionato diversi piani della mia vita: innanzitutto
quello sociale e relazionale e poi anche il piano esistenziale. Nel
primo caso, avendo dormito troppo ho dovuto annullare un
appuntamento. Nel secondo caso, non ho studiato e questo, quando mi
capita per una mia mancanza o per il venire meno di una parte di
quella disciplina rigida che mi auto-impongo per riuscire a lavorare
e studiare, mi innervosisce e fa insorgere in me una specie di senso
di colpa per le pagine che non ho letto o scritto, per avere messo in
secondo piano un obiettivo fondamentale della mia vita (lo studio).
Cosa succede, mi chiedo, quando una stanchezza così plumbea, grigia
e pesante come questo cielo dell'ottobre torinese si impossessa, per
un lasso di tempo lungo e indefinito, di intere comunità, di
migliaia di persone costrette a lavorare a ritmi pensanti e a fare
dei lavori logoranti per almeno quaranta anni della loro vita (gli
anni necessari alla pensione)? È possibile rispondere che si creano
milioni di persone, intere società colme di una stanchezza atavica,
profonda, radicata come un istinto di sopravvivenza terribile? È
possibile rispondere che l'unico obiettivo di tutte quelle comunità
di uomini sia arrivare a fine giornata, addormentarsi e sprofondare
nell'oblio di un sonno imperituro e incosciente?
sabato 12 ottobre 2013
La manifestazione, la condizione umana e la fabbrica di cassaintegrati
Lo scorso 5 aprile, intorno alle 9,00 del mattino, il mio telefono
squillò. Michele, dall’altro capo del telefono, flemmatico e pacato come
sempre, mi fece alcune di quelle domande che di consueto si fanno fra ottimi
conoscenti e a un certo punto mi chiese dove mi trovavo. Risposi che ero a casa
a riposarmi da non ricordo più quale mia impresa donchisciottesca. A quel
punto, Michele m’informò che era in atto una manifestazione improvvisata degli
operai Fiat di Termini Imerese. Gli chiesi dove si trovassero in quel momento e
che strada stavano facendo e l’uomo dall’altro capo del telefono mi rispose che
stavano per partire da piazza Castelnuovo e che l’obiettivo era raggiungere
piazza Indipendenza, dove si affaccia la sede della Presidenza della Regione Siciliana,
ma che tuttavia l’itinerario era segreto. Raggiunsi i manifestanti quanto
prima, intercettandoli sulla via Amerigo Amari, davanti a una stazione della
Guardia di Finanza e qui trovai Michele ad attendermi. Mi spiegò che la
manifestazione era stata organizzata in segreto, tramite sms scambiati fra i
sindacalisti organizzatori, i colleghi e gli impiegati. L’unica cosa che era
detta in quegli sms era di farsi trovare per la mattina del 5 aprile alle 8,00
in piazza Sant’Antonio a Termini Imerese. Qui i manifestanti avrebbero trovato
dei pullman ad attenderli per portarli a Palermo. Michele m’informò, inoltre,
che, già al momento della partenza, gli animi dei lavoratori erano caldi e la
tensione sfociò in episodi di violenza fra alcuni operai. Tale agitazione era
dovuta essenzialmente a due motivi: il decreto legislativo firmato a dicembre
2012 che permetteva due anni di cassa integrazione e la mobilità per 640
operai, che con la vecchia legge pensionistica avevano il diritto alla
pensione; e, in conseguenza di questo decreto, il drastico calo dei
partecipanti alle manifestazioni inerenti alla vertenza Fiat di Termini
Imerese. Questa profonda spaccatura del fronte operaio è stata vissuta come una
specie di tradimento da parte di tutti quei lavoratori che, non avendo i
requisiti minimi per una pensione alla fine del 2013 saranno definitivamente
licenziati dall’azienda torinese.
Mentre Michele ed io parliamo di questi fatti, il corteo si rimette
in marcia. Via Cavour, dove si trova una sede della Banca d’Italia, è il nostro
primo passaggio. Qui un gruppetto di operai si stacca dal corteo e si avvicina
al portone d’ingresso, dove un carabiniere, con la faccia scocciata e quasi
implorante, tenta di dissuadere i manifestanti mentre alcuni impiegati della
banca sprangano il portone d’ingresso. Il carabiniere fa più volte di no con la
testa e poi uno dei manifestanti, voltandosi verso il corteo, urla: “Picciotti amuninni ca picciuli pi nuatri un
ci n’è!”[1]
Il corteo riparte e la prossima tappa è il Teatro Massimo. Qui sulla
scalinata del famoso monumento ci si dispone tutti per la fotografia di gruppo.
Come una scolaresca in gita, diversi operai mi chiedono di scattargli una
fotografia un po’ per una sorta di narcisistica velleità e un po’ perché
vogliono testimoniare la loro partecipazione a un momento importante per la
vertenza.
Ci rimettiamo in marcia su via Maqueda fino al Palazzo delle Aquile,
sede dell’ufficio del sindaco di Palermo, dove un assordante boato di fischi e
urla rende tutto molto confusionario e caotico. Anche qui c’è chi si fa
fotografare con striscioni davanti alla cintura di poliziotti che ostruiscono
l’ingresso del Comune.
Poi di nuovo via Maqueda, fino a Palazzo Comitini, sede della
Provincia di Palermo, e altro coro di fischi e urla e di nuovo in marcia fino
alla stazione centrale e poi su Corso Tukory, in direzione di Palazzo
d’Orleans. Qui intravedo in mezzo alla folla Francesco e mi avvicino. Mi chiede
come sto e bonariamente mi accusa di farmi “sempre i cazzi degli altri”.
Iniziamo a parlare di quegli altri e della situazione della vertenza che si
trova sostanzialmente a un fase di stallo. Il primo dicembre 2011, infatti, i
sindacati, organizzazione di cui fa parte anche Francesco, avevano firmato un
accordo con l’azienda, alla presenza dell’allora ministro del lavoro e del
ministro allo sviluppo economico. In tale accordo si prevedeva, fra le altre
cose, anche l’ingresso nel sito di Termini Imerese, di DR Motor, azienda italiana
che assembla autoveicoli e che fa capo a Massimo di Risio. Questa azienda,
individuata dall’agenzia governativa per lo sviluppo del Mezzogiorno,
Invitalia, in seguito dimostrò l’impossibilità di far partire gli investimenti
per rilevare il sito termitano a causa di una grave mancanza di liquidità. Già
in sede di contrattazione, al momento della firma dell’accordo del primo
dicembre 2011, i sindacati avevano mostrato perplessità per l’ingresso di
questo nuovo investitore. Tuttavia, tale perplessità fu lasciata da parte in
nome del fatto che, senza un’alternativa imprenditoriale alla Fiat, non sarebbero
partiti gli incentivi per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e
mobilità). In sostanza, come mi disse Francesco durante la manifestazione: “Se a
Termini non possiamo fare una fabbrica di automobili, almeno possiamo fare una
fabbrica di cassaintegrati.”
Ma che cosa è questa cassa integrazione?[2] Come si
configura, al livello antropologico, questo sostegno ai lavoratori nel momento
in cui si protrae per un tempo medio-lungo?
Secondo Hannah Arendt la condizione umana si fonda su tre pilastri: il lavoro, l’opera e l’azione. Secondo l’autrice:
L'attività lavorativa corrisponde
allo sviluppo biologico del corpo umano il cui accrescimento spontaneo,
metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte,
alimentate nel processo vitale della stessa attività lavorativa. La condizione
umana di quest'ultima è la vita stessa.
L'operare è l'attività che
corrisponde alla dimensione non-naturale dell'esistenza umana, che non è
assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve,
non è compensata da esso. Il frutto dell'operare è un mondo
"artificiale" di cose, nettamente distinto dall'ambiente naturale.
Entro questo mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato
stesso dell'operare sta nel superare e trascendere tali limiti. La condizione
umana dell'operare è l'essere-nel-mondo.
L'azione, la sola attività che metta
in rapporto gli uomini senza mediazione di cose materiali, corrisponde alla
condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l'Uomo, vivono
sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra
esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è
specificatamente "la" condizione - non solo la conditio sine qua non , ma la conditio per quam - di ogni
vita politica[3].
Ciò significa che, per l’autrice, il lavoro si configura come un processo mirato a soddisfare le necessità degli uomini ed è soggetto alla trasformazione dei tempi e, soprattutto, all’usura dello scorrere della vita. L’operare, pur essendo una forma particolare di lavoro, tende invece a creare un prodotto definitivo che, per la sue caratteristiche di finitizza e immutabilità, tenta di sottrarre all’usura del tempo i prodotti dell’uomo dando a quest’ultimo la percezione, se vogliamo illusoria, dell’eternità e dell’immortalità (l’esempio classico e magistrale di un tale prodotto sono le opere d’arte). Infine l’azione è un’immersione nelle cose del mondo che mette gli uomini in relazione fra loro senza nessuna mediazione da parte dei costrutti materiali, come avviene nel caso del lavoro e dell’opera, nell’estremo tentativo di assoggettare, in qualche modo, quello scorrere del tempo che usura le esistenze.
Se si guarda alla condizione di cassaintegrati seguendo la speculazione di Arendt ci si accorge di quanto la cassa integrazione, lo ripeto, protratta per un tempo abbastanza lungo, provochi un mutamento profondo alla condizione umana. I cassaintegrati qui presi in considerazione, infatti, sono persone che, pur percependo un salario (anche minimo e limitato nel tempo) non esercitano alcun lavoro, non prendono parte a nessun processo produttivo. Si aggiunga a ciò che, nella maggior parte dei casi, essi non svolgono nessun altro lavoro non perché non ne abbiano le capacità o i mezzi, bensì per due ragioni fondamentali: la sospensione della cassa integrazione nel momento in cui dovessero svolgere un lavoro; il venir meno di un senso della propria attività. In quest’ultimo caso, infatti, ho registrato la mancanza di una motivazione forte che spinga quegli uomini a creare opere, a rimettersi in gioco perché, secondo loro, comunque essi non hanno nessuna speranza di sottrarsi alla loro condizione liminoide di cassaintegrati o esodati. In questo modo, in quello che rimane della comunità operaia di Termini Imerese, viene meno anche la necessità di creare delle opere che rimangano perché troppo presi dalla loro condizione di assoggettamento alle necessità della vita e del suo scorrere.
L’ultimo baluardo cui possono aggrapparsi è l’azione politica. In questo senso, la manifestazione del 5 aprile rappresenta un mezzo attraverso cui ri-creare una comunità. Non c’è nessuna catarsi in questo corteo, nessuna purificazione né liberazione. C’è la ricerca di risposte, la volontà di creare un senso e, in definitiva come nei riti di ribellione analizzati da Max Gluckman, la necessità di aggrapparsi a un ordine sociale. L’unico che noi, padri e madri di famiglia, cassaintegrati, precari ed esodati, noi tutti presi in questo scorrere inarrestabile della vita, in questa terrificante condizione di esseri-nel-mondo riusciamo a concepire.
[1] “Ragazzi, andiamocene
perché soldi per noi non ce ne sono!”
[2] Tengo subito a chiarire il
fatto che non metto in discussione in alcun modo l’utilità e l’importanza di un
simile ammortizzatore sociale, soprattutto per la sopravvivenza dei lavoratori
che fanno parte di aziende in difficoltà economiche.
[3] Arendt, 1991, Vita activa. La condizione umana,
Bompiani, Milano: 45
sabato 5 ottobre 2013
Storie di fabbrica. Michele e Francesco: due uomini in mare
In una domenica mattina del mese di maggio percorro in
automobile il viale antistante lo stabilimento di Termini Imerese. Mi godo il
paesaggio del mare, calmo e placido, accarezzare dolcemente la terra mentre Michele
guida la sua Punto. È un operaio della Lear, l’azienda che, in uno stabilimento
di circa settanta dipendenti attiguo alla Fiat, produce e confeziona i sedili
delle automobili prodotte a Termini Imerese. Ha quarantadue anni e attualmente
è fra gli operai in cassa integrazione che nell’ottobre del 2013 verranno
licenziati dalla sua azienda in conseguenza della chiusura della Fiat. Conosco Michele
da circa dieci anni poiché insieme abbiamo lavorato in un ristorante di
Buonfornello, la contrada marinara che sorge fra Termini Imerese e Campofelice
di Roccella. Michele ha sempre accompagnato la sua attività di operaio a quella
di cameriere. Dal 1987, anno in cui è assunto dalla Lear, ha integrato la sua
paga di operaio con quella di cameriere, svolgendo quest’ultima attività sempre
e comunque in nero. Nella fase attuale della sua vita lavorativa, Michele ha
intensificato la sua attività legata alla ristorazione continuando ad
esercitarla in nero per evitare la sospensione della cassa integrazione, che,
tuttavia, non percepisce da circa quattro mesi a causa della mancanza di
liquidità della sua azienda, incapace quest’ultima di anticipare il costo di
questo ammortizzatore sociale.
Anche in questa assolata domenica mattina, con il mare
piatto al fianco e il sole in faccia, io e Michele stiamo percorrendo la strada
che porta da Termini Imerese a Buonfornello per recarci al ristorante dove
affronteremo le nostre 18 ore di lavoro[1]. Nei
pressi della strada ferrata Palermo-Messina, Michele accosta l’auto, ingrana la
marcia indietro e ritorna sui nostri passi di una cinquantina di metri. Gli
chiedo cosa sta succedendo e il mio collega risponde lapidario: “C’è Francesco”.
Mi giro indietro e vedo quest’ultimo, uno dei leader sindacali della vertenza
Fiat, con un paio di scarpe impolverate e sporche di terra, un paio di jeans e
una camicia vecchi, luridi e rattoppati qua e là, armeggiare con un bidoncino
di benzina intorno ad una vecchia motozappa. Vedendolo mi ricordo delle volte
in cui abbiamo parlato del suo passato prima dell’ingresso in Fiat, delle sue
metafore tratte dal mondo contadino per illustrarmi le varie fasi della vertenza
e ho la netta sensazione che l’operaio, il sindacalista attento, competente,
combattivo e razionale non ha mai abbandonato ciò che era e, forse nell’attuale
fase di dismissione dello stabilimento, con la pressione che su questi
portavoce dei lavoratori esercitano le migliaia di dipendenti e con lo
sgretolarsi del tessuto economico e sociale di Termini Imerese e di tutto il
comprensorio, Francesco ritornando, anche solo saltuariamente al suo primo
lavoro, recuperi un contatto con il passato, con la sua identità che i
lavoratori più giovani di lui e senza nessuna qualifica professionale non
riescono a costruire.
Lo chiamiamo da lontano e ci avviciniamo. Ci chiede
come mai ci troviamo da quelle parti e gli spieghiamo che, per sbarcare il
lunario, siamo costretti a fare i camerieri nei fine settimana. A questo punto
un’ombra di tristezza attraversa il viso di Francesco e intuisco che è come se,
in qualche modo, la presenza di Michele, gli facesse sentire addosso la
responsabilità della vertenza, della sorte e del benessere di alcune centinaia
di persone e cerco di cambiare discorso dicendogli che non sapevo che quel
terreno, che costeggio da dodici anni a questa parte, fosse suo. Mi risponde
che, prima di entrare in Fiat, nel 1979, quella era la sua unica fonte di
reddito. Coltivava ortaggi, verdura e produceva olio che venivano poi venduti
nel mercato ortofrutticolo di Termini Imerese. L’attività contadina è diventata
secondaria con l’assunzione in Fiat e con l’insorgere delle prime incombenze
sindacali. Per un certo periodo di tempo ha continuato a coltivare la terra, ma
sempre in quantità minore e con un numero di prodotti ridotto. Tuttavia,
rinunciare ad una entrata economica, seppure esigua, era difficile e allora,
per un certo numero di anni, ha invertito il flusso commerciale: piuttosto che
vendere i suoi prodotti al mercato ortofrutticolo locale, ha cominciato a
comprarli da questo e a rivenderli all’angolo della strada ai villeggianti che,
nei fine settimana d’estate, transitavano per le vicine località balneari,
spacciando quei prodotti come coltivati da se stesso. Poi gli impegni sindacali
sono diventati sempre più gravosi, ha aperto un CAF e, di conseguenza, per
alcuni anni ha affittato il suo terreno ad un albanese. Solo da qualche mese,
in concomitanza della chiusura dello stabilimento Fiat, ha ricominciato a
coltivare la sua terra.
Michele, tuttavia, comincia a diventare impaziente e,
a un certo punto, quando Francesco fa un veloce cenno alla chiusura della
fabbrica, ne approfitta per chiedere al sindacalista: “Francé, notizie n’aviemu?”[2]. Francesco,
con gli occhi a terra, risponde di no che “i
notizi su sempri chiddi!”[3]
ovvero: non ci sono notizie. Poi Francesco, girandosi verso il suo terreno, in
direzione dello stabilimento e della città di Termini Imerese, comincia a
parlare del periodo in cui, fino agli inizi degli anni Settanta, la Fiat, la
Magneti Marelli, la Lear, la Bienne Sud e tutte le altre fabbriche più o meno
grandi non esistevano. L’unica parvenza di industrializzazione moderna nel
territorio era la centrale Enel, istallata all’inizio degli anni Sessanta. La
pianura, attualmente occupata dalla zona industriale, era allora un’unica
distesa di carciofi e ulivi. Quello sguardo di Francesco su quella piana è come
un grande punto interrogativo su ciò che sarebbe potuto essere, su cosa sarebbe
successo se la Fiat non fosse mai arrivata.
Nel frattempo Michele tace. Aspetta un cenno una
parola, ma ormai entrambi gli uomini, l’uno di fronte all’altro, sono persi nei
propri interrogativi, nei rimpianti e nelle attese: due uomini frantumati e
accomunati dalla paura del futuro, dall’incertezza strisciante e profonda che
ormai si è impossessata di loro come di tutti i lavoratori di questo paese sempre
invischiato in una imperitura crisi d’identità e alle prese con ataviche
emergenze sempre uguali e sempre nuove. Sullo sfondo la piana, le fabbriche e
la città, il monte San Calogero e questo mare troppo calmo, troppo viscido.
[1] Nell’ambito della ristorazione locale c’è una
netta distinzione, simbolica e sostanziale, fra chi lavora come cameriere fisso
(u fissu), come cameriere extra ma
sempre nel medesimo ristorante (estra-fissu),
come nel caso mio e di Michele, e chi, invece, come cameriere extra, per così
dire, itinerante, che cioè lavora in diversi locali della zona quando e dove
c’è più richiesta (estra).
Generalmente gli estra-fissu e gli estra sono persone che svolgono altre
attività, come operai, impiegati e studenti, e che nel tempo libero si
guadagnano da vivere o integrano i loro stipendi prestando servizio nei locali
della zona. Questi lavoratori vengono pagati di più rispetto ai fissi (rispettivamente circa 60/65 euro
per 8 ore di lavoro a fronte dei 30/40 euro per una giornata lavorativa) e
tendono a svolgere la loro attività in nero, spesso per una propria richiesta
legata alla pressione fiscale. Generalmente gli estra e gli estra-fissi
tendono a concentrare molte ore di lavoro nei pochi giorni liberi che hanno a
loro disposizione per tesaurizzare quanto più possibile il loro tempo. È usuale
che essi tendano spesso a fare le doppie,
cioè a coprire il pranzo e la cena del ristorante con le relative complesse
preparazioni che iniziano alle 9,00 del mattino fino alla chiusura del locale,
che non avviene mai prima dell’una del mattino e comunque spesso si protrae
fino a notte fonda. In questi casi si dà vita ad una vera e propria estenuante
resistenza fisica, dal momento che gli estra-fissi
e gli estra lavorano senza
interruzione di sorta per tutta la durata della loro giornata, saltando spesso
sia il pranzo che la cena. Naturalmente le doppie
sono ambite da questa categoria di camerieri perché vengono pagate il
doppio (circa 120/130 euro) rispetto ad un normale servizio. A questa paga
vanno aggiunte le mance dei clienti che fanno in modo che in 16-18 ore di
lavoro il salario degli estra e degli
estra-fissi arrivi a circa 140-150
euro.
[2] Francesco notizie [della
vertenza] ne abbiamo?
[3] “Le notizie sono sempre quelle!”
I due uomini si riferiscono, in questo caso, a notizie che dovrebbero provenire
da almeno due fronti. Il primo riguarda il processo di re-industrializzazione,
in ritardo di un anno, che l’azienda DR Motor dovrebbe attuare, ma a cui manca
la liquidità economica necessaria per coprire gli investimenti. Il secondo
fronte riguarda l’ambito politico-istituzionale con la presa in carico da parte
dell’assessore regionale Linda Vancheri, per conto del Presidente Regionale
Rosario Crocetta, del compito di ricercare altri investitori capaci di
installare attività produttive nell’area industriale di Termini Imerese.
sabato 28 settembre 2013
Storie di fabbrica «Parravi mali? Na Santa inquisizione, nna cruci e t'abbruciavanu!»
Il
Bolscevico arriva sulla sua Panda bordeaux vecchio modello. Non l'ho
mai visto prima. L'ho solo sentito per telefono, ma quando scende
dall'auto capisco che è l'uomo che sto aspettando. Cappello in pile
nero da cui spuntano ciocche di capelli anch'essi neri con dei
riflessi argentei, giubbotto sportivo nero, pantaloni da tuta e
scarpe da corsa. Ha un fisico asciutto, il Bolscevico, un viso in
cui i cinquant'anni di questo operaio hanno lasciato un solco:
attorno agli occhi, sulla fronte, fra il contorno della bocca e le
guance è un continuo spalancarsi di valli, di righe, di solchi e per
ognuna di queste rughe sarebbe possibile scrivere una storia. La
barba nera e incolta su cui spunta qualche pelo bianco mi ricorda
vagamente Er Monnezza, il famoso personaggio di film polizieschi
degli anni Settanta interpretato da Tomas Milian. Mi viene dritto
incontro, mi stringe la mano e mi chiede di seguirlo.
Arriviamo
nella locale sede di un noto sindacato, ci sistemiamo nella sala
delle riunioni e il Bolscevico inizia a raccontarmi la sua storia.
Quarantanove
anni di cui gli ultimi trentaquattro passati a lavorare in varie
realtà della zona. Il primo lavoro che ha svolto fu quello di
operaio in una fabbrica di ceramica che da un giorno all'altro i
lavoratori trovarono chiusa: i proprietari avevano delocalizzato
l'azienda e smontato tutti i macchinari nel giro di un fine settimana
all'insaputa dei lavoratori. È durante questa occasione che il
Bolscevico entrò in contatto con il sindacato. Poi è stato
muratore, imbianchino e, infine, alla fine degli anni Ottanta,
operaio nel locale stabilimento Fiat. Nel frattempo, ha affiancato
alla sua attività sindacale anche l'impegno politico nei partiti
della sinistra. In fabbrica ha lavorato per circa venticinque anni in
vari reparti della linea di montaggio e, a causa del suo impegno
politico-sindacale e della “pericolosità” della sua attività di
rappresentante dei lavoratori, è stato sempre spostato da un reparto
all'altro per evitare che riuscisse a creare uno zoccolo duro di
contestazione nei confronti dell'azienda. Come lui stesso racconta:
«In
questi anni mi sono alternato nel... i primi anni ero alla parte
meccanica e c'era un reparto che si chiamava la giostra. C'erano due
linee praticamente: una che camminava sotto, con i motori, noi
l'alzavamo dalla scocca che veniva sopra. Eravamo chiamati i minatori
del... perché era un posto schifosissimo dove tu assemblavi motori,
tutta la parte sotto-scocca della macchina. Poi negli anni ho
cambiato vari reparti, sono stato in verniciatura sempre in catena di
montaggio, poi in lastratura in catena di montaggio, poi sono tornato
di nuovo al montaggio mi sono alternato sempre anche... » «Sempre
sulla linea?» «Sì, perché io ero anche un soggetto scomodo per
l'azienda per il fatto che ho sempre militato in politica, nel
sindacato e quindi rompevo un po' i coglioni e quindi mi
emarginavano, mi cambiavano spesso di squadra».
Il
Bolscevico, però, prima di essere un militante politico, un
attivista sindacale e un operaio della Fiat, almeno fino al prossimo
31 dicembre, è anche un uomo pieno di ricordi legati al passato e al
luogo in cui sorge lo stabilimento. «Io nasvivi nto '63, me patri o
'70 trasiu a Fiat e noi abbiamo avuto, come si dice, un innalzamento
sociale... me patri di ncampagna vineva, nuatri pani e cipudda
maciavamu va. Me patri trasiu a Fiat e allora gli stipendi si
aggiravano intorno alle 100.000 lire al mese; un impiegato in banca
nni pigghiava 80. Me patri s'accattò televisioni, lavabiancheria,
frigorifero. A televisioni, nno quartieri, l'aviamu sulu nuatri e i
cristiani si virevanu a televisioni e i partiti dintra a me casa, ca
pariamu a o stadiu... Per farti capire che, la gente come me, che ha
avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat, picchì a Fiat ti
ha consentito di fariti na casa, me patri s'accattò l'850 che
allora, l'850 era... chi t'ha diri, un Mercedes di ora... si caminava
ca Topolina, ca 600, insomma era un machinuni. Perciò hai avuto
questo innalzamento sociale grazie alla Fiat... Minchia, regali ai
picciriddi, pi Natali, circhi, cinema... cose alla grande, perciò la
mia generazione, che è cresciuta con questa fase, gli anni '70, gli
anni '80, unni a Fiat ca a Termini era tutto. Minchia, guai ai
cristiani ca ci tuccavi... parravi mali da Fiat? Minchia, c'avi a
fari... na santa inquisizione, nna cruci e t'abbruciavano: o rogo ti
mittevano»1.
Rendere
l'idea di un luogo di lavoro scevro da problemi, conflitti,
ingiustizie e lotte è fuorviante e la romanticizzazione di un lavoro
come quello di fabbrica non è per nulla la mia intenzione, ma credo
che se si voglia capire la questione della vertenza Fiat di Termini
Imerese, come di qualsiasi altra vertenza, è necessario cercare di
inquadrare la questione tenendo conto delle varie posizioni e istanze
dei soggetti che sono coinvolti nella stessa vertenza.
Il
Bolscevico, così come molti altri lavoratori dello stabilimento, ha
conosciuto senza ombra di dubbio quello che lo stesso informatore
definisce come un innalzamento sociale, cioè un miglioramento delle
condizioni economiche, sociali ed esistenziali grazie all'arrivo
della Fiat nel territorio termitano. In questo senso è possibile
affermare che lo stabilimento di automobili è stato un luogo che,
grazie alla sua funzione di produzione materiale, è riuscito a
creare un certo grado di benessere. Quest'ultimo si è palesato con
l'arrivo degli elettrodomestici, delle automobili e con la creazione
di reti sociali diverse rispetto a quelle che si esperivano e si
esercitavano in un contesto di tipo non industriale2.
Ma tali elettrodomestici, oltre ad essere degli strumenti di uso
quotidiano, erano anche dei simboli da ostentare, davanti alla
propria comunità, del proprio innalzamento sociale. Ed è a questo
punto che la fabbrica da luogo dove si producono merci, diventa luogo
in cui si producono simboli e diventa simbolo essa stessa: di un
innalzamento sociale, di un benessere economico, di una soddisfazione
personale.
È
facile immaginare, a questo punto, cosa è potuto accadere con la
chiusura e la conseguenza dismissione dello stabilimento Fiat.
Quando, verso la fine della nostra conversazione, chiedo al
Bolscevico cosa fa in questo momento è così che mi risponde: «Ma
veramente non lo so cosa faccio, picchì mancu u sindacalista fici
chiù».
Il
Bolscevico: un uomo di mezza età che ha percorso il cammino di
ascesa spianato dalla Fiat, che ha sempre trovato nell'attività
politico-sindacale un modo per essere partecipe all'interno della
propria comunità e un tratto identitario forte tanto da fargli
guadagnare il suo soprannome, nella fase di dismissione attuale, non
sa più cosa sta facendo. Si trova smarrito a fare i conti con uno
stabilimento in dismissione che fino qualche anno fa era il simbolo
di un benessere difficile, faticoso, ma possibile e ora è l'emblema
di un futuro sospeso, incerto e smarrito ancora tutto da digerire,
metabolizzare, rifare.
1«Io
sono nato nel '63, mio padre nel '70 è entrato in Fiat e noi
abbiamo avuto, come si dice, un innalzamento sociale... mio padre
dalla campagna veniva, noi mangiavamo pane e cipolla. Mio padre è
entrato in Fiat e allora gli stipendi si aggiravano intorno alle
100.000 lire al mese; un impiegato in banca ne guadagnava 80. mio
padre si è comprato la televisione, la lavabiancheria, il
frigorifero. La televisione, nel quartiere, ce l'avevamo solo noi e
le persone guardavano la televisione e le partite a casa mia, che
sembravamo allo stadio... Per farti capire che, la gente come me,
che ha avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat, perché
la Fiat ti ha consentito di farti una casa, mio padre si è comprato
la 850 che allora, la 850, era... che ti posso dire, un Mercedes di
ora... si camminava sulla Topolina, con la 600, insomma era un
macchinone. Perciò hai avuto questo innalzamento sociale grazie
alla Fiat... Minchia, regali ai bambini, per Natale, circhi,
cinema... cose alla grande, perciò la mia generazione, che è
cresciuta con questa fase, gli anni '70, gli anni '80, dove la Fiat
qui a Termini era tutto. Minchia, guai alle persone che ci
toccavano... palavi male della Fiat? Minchia, cosa doveva fare...
una santa inquisizione, sulla croce e ti bruciavano: al rogo ti
mettevano».
2È
il caso, per esempio, delle riunioni di vicinato per guardare la
televisione.
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